cover: innervision (2002) di JapiHonoo
“Parlare: ecco la via più sicura per fraintendere, per rendere tutto piatto ed insulso.”
Hermann Hesse
Diventa ogni giorno più difficile trovare angoli intradimensionali in cui trasferire le mie esperienze attraverso la dimensione dei numeri, il sentiero di sempre non è più lo stesso: a tratti diventa così stretto che riesco a passare a malapena, sfiorandone il ciglio. Di tanto in tanto, in passato, mi sono trovato di fronte a dei bivi, ma erano strade talmente piccole ed insignificanti che non indugiavo affatto nella decisione di evitarle, mentre adesso, ad ogni incrocio, mi fermo a riflettere: <<Sarà il caso di andare di qua o di là, stringerà ancora o si allargherà, sarà un viottolo senza uscita o mi porterà su di un sentiero più grande?>> Non vi è più alcuna differenza fra la via che percorro e le diramazioni che mi si pongono innanzi e non ho altresì modo di affidarmi ad una direzione, perché non appena imbocco una strada, questa non prosegue mai diritta, ma si arrampica sui colli verso est, per poi svoltare ad ovest, talora torna pure indietro. E’ come vagare in un immenso labirinto senza pareti e senza una via d’uscita. A tratti credo fortemente che il sentiero del Perpetuo Camminare muti a seconda dei miei stati d’animo, difatti è esattamente questo il modo in cui mi sento: incerto sulla direzione da seguire, col desiderio di andare avanti, ma con la paura di continuare che si fa così forte da farmi tornare indietro. Questa strada sembra plasmata dalla mia insicurezza.
Certe volte mi prende una disperazione senza confini, ho paura di non riuscire più a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Tutto questo accade dal giorno in cui ho fatto ritorno da Trondheim. Le parole di Nomi e della Völva, l’insistenza di Grethe sul fatto che dovessi ricordare il mio vero nome, non si staccano dalla mia testa. E dire che solo qualche mese fa ero sicuro della realtà della mia esistenza, mentre adesso le emozioni sono gli unici baluardi contro il grido di un dubbio scomodo: <<Tu non esisti più.>>
Vorrei che Nisse fosse qui, ha sempre avuto buoni consigli da darmi. Il simpatico gnomo riesce ad orientarsi bene fra i boschi e potrebbe aiutarmi nella ricerca di una strada migliore o magari indicarmi il corso di un fiume in modo che, nel Perpetuo Camminare, possa lasciarmi coccolare dal suono delle acque in movimento.
Vorrei potermi abbandonare tra le braccia di Grethe, sentire il suo profumo d’eucalipto e annientare questa coscienza nelle armonie delicate dei canti delle Driadi, ma ho deciso di non chiamare nessuno, è come se la mia volontà sia inconsciamente intenzionata ad inchiodarmi a questa follia. L’ultimo incontro, quello con la figura spettrale di Nomi, mi ha già messo in guardia sui rischi di questa condizione: non si può vivere di sole idee, di tanto in tanto la mente ha bisogno di prove concrete, di realizzazioni materiali che confermino quella speranza che tengo stretta al mio petto. Se la mente è forte, il corpo invece sembra aver perso tutte le energie necessarie per contrastare il disincanto: gli occhi non sono in grado di guardare chiaramente per scegliere il giusto sentiero e le gambe sembrano portare tutto il peso di questa stanchezza.
Pochi giorni dopo l’incontro con Nomi ho dovuto affrontare un ennesimo pericoloso confronto con altre forme di realtà che sembrano volere a tutti i costi imporsi sulla mia. Camminavo lungo il solito sentiero, deciso a proseguire nonostante il desiderio di fermarmi e fu così che feci la conoscenza di Øye, una figura umana inerte, immobile, ripiegata su sé stessa, che in un primo momento mi parve dormiente, fino a quando un grande occhio, nascosto sulla parete laterale del torace, non si schiuse. La creatura parlava attraverso le labbra, ma non ne scorgevo i movimenti in quanto il capo era chino e le braccia nascondevano la bocca.
Mi presentai ed egli mi disse il suo nome: Øye, che nella nostra lingua antica significa per l’appunto OCCHIO. Decisi di fermarmi un momento e così mi ritrovai a raccontare le vicissitudini degli ultimi giorni. L’occhio mi fissava imperturbabile ed il corpo continuava ad insistere nell’immobilità completa. A tratti credetti si trattasse di un’allucinazione, ma quando conclusi il mio racconto le labbra di Øye si schiusero in queste parole: <<Mio caro amico, le cause della tua sofferenza sono avidya, raga, dvesa e abhinivesa. Avidya altro non è che la tua stessa ragione, la causa prima di tutti i dolori, la tua incapacità di riconoscere ciò che è davvero puro: continui ad inseguire la speranza di ricongiungerti con una donna che credi la tua unica regina, sprecando tempo ed energie nell’illusione che solo lei possa completarti. L’amore che nutri per quella donna è la tua Raga e ad essa è sottomesso il tuo cuore: la Raga deriva dal piacere ed il tuo essere tutto è mosso dal desiderio di vedere ricambiata l’affezione per quella donna. Tutto questo scatena un susseguirsi di klesa, che inevitabilmente manifestano la Dvesa, l’avversione da parte tua verso ciò che contrasta la tua falsa fede.>> Si fermò un attimo, forse in attesa che annuissi o che confermassi le sue parole, ma io avevo bisogno di tempo per assimilare quelle nuove informazioni, così Øye continuò: <<Ultima, ma non per questo meno trascurabile, è l’Abhinivesa, il tuo attaccamento smodato alla vita che, nonostante la tua morte, continua a perdurare condannandoti in un mondo sospeso e ad una vita indegna di essere definita tale. Fermati con me, con la meditazione riuscirò ad insegnarti l’arte del sopprimere le manifestazioni di questi quattro klesa.>>
Quando Øye ebbe terminato il suo sermone rimanemmo entrambi qualche minuto in silenzio, come se egli avesse compreso e rispettasse il mio bisogno di riflettere. Ho sempre creduto che fosse profondamente difficile mettere in discussione la propria fede, bisogna che ci siano delle condizioni evidenti di disagio ed una forte rabbia prima di scardinare le certezze che ci costruiamo nel corso della nostra vita, tuttavia mi bastò qualche minuto per rispondere e, ancora una volta, mi scoprii forte nelle mie convinzioni: <<Øye, ciò che dici mi colpisce profondamente, desidererei conoscere i motivi della tua presenza qui, ma penso che in questo momento non siano significativi. Le tue parole sono degne di attenzione ma non ho alcuna intenzione di fermarmi con te per superare quelle che tu definisci “klese”.>> Øye mi interruppe per correggere il mio errore: <<Klesa, si dice klesa, ed il significato di questa parola è “ostacoli”.>> Si limitò a dirmi questo, mantenendo la medesima imperturbabilità. <<Grazie per la spiegazione, avevo intuito il senso dal tuo discorso, ma lascia che ti spieghi le ragioni del mio dissenso. Probabilmente il tuo startene qui, chino su te stesso, in completa seraficità, è indice del fatto che le tue parole sono il traslato del tuo modo di vivere e pensare, che hai compassione per la mia infelicità e simpatia per la tua serenità, tuttavia sono convinto che ognuno di noi concepisca la propria esistenza in maniera differente, scegliendo il modo in cui vivere le proprie emozioni o semplicemente sopravvivere ad esse. Chiunque può decidere di non affezionarsi, non correndo in tal modo il rischio di soffrire, ma bisogna che in questa decisione vi sia la consapevolezza di rinunciare ad una forza vitale che, perdonami se te lo dico, credo tu neanche conosca.>> Il suo occhio si chiuse per un istante, forse in segno di conferma o forse solo di biasimo. <<Per farti comprendere meglio, cercherò di ripercorrere i medesimi argomenti da te utilizzati: Se rinuncio alla ragione, come posso riconoscere di esistere? Se non ho fede in quello che sento e cui attribuisco una dimensione razionale, come posso essere certo che sia davvero io a vivere questa vita e non uno skogkatt che vaga per i boschi, o anche una semplice formica? E, continuando, se rinuncio all’amore cosa posso fare da solo in questo mondo se non scrivere dell’amore stesso, per almeno immaginarlo e così dedicare ad esso poesie per cantarlo in ogni forma possibile? Tu che ti preoccupi tanto della mia sofferenza, non stai forse manifestando affetto nei miei confronti? Poi, in riferimento a quella che tu chiami “la mia falsa fede”, a difesa della quale si manifesta la mia avversione, di cosa parli? Ti riferisci forse al mio sdegno verso ciò che è malvagio? Sono forse in torto nel disprezzare creature come Varg ed Hilde che vagano per questo o quel mondo, col solo intento di corrompere anime fragili?>> Øye, che era stato ad ascoltare con aria di sufficienza, a quel punto mi interruppe: <<Non intendo certo questo, il male è una presenza che ogni saggio sa riconoscere, anzi, ogni creatura senziente di questo mondo è assolutamente capace di distinguere fra bene e male. I tuoi pregiudizi sono riferiti al credere con forza assoluta che da solo non puoi farcela, che hai bisogno di un altro essere umano, mentre in realtà la natura ci ha dato questo amore per consentirci di portare avanti la specie ed esso è solo un trucco, uno stratagemma, che dura fin quando non generi il primo figlio, per poi tramutarsi in un legame impuro che porta dolore e disincanto, solo una…>> Stavolta fui io ad interromperlo: <<Capisco e rispetto il tuo pensiero, ma non puoi pretendere che io la veda allo stesso modo. Tu porti il tuo amore alle creature che incontri e anche al tuo spirito, per me è difficile accontentarmi. Molte volte ho cercato di ragionare come te. Troppe volte ho voluto abbandonarmi al disincanto per strapparmi di dosso questo bisogno di amare e d’essere a mia volta amato, ma non ce l’ho fatta, perchè è qualcosa che mi porto dentro dalla nascita, che fa parte del mio spirito. Si può essere come te o come me, ma la propria essenza non si può cambiare. Certo, visto il modo in cui hai scelto di trascorrere la tua esistenza non mi stupisce che tu critichi il mio attaccamento alla vita.>> Ancora una volta l’occhio si chiuse per un momento. <<Riguardo quella donna di cui parli con tale sufficienza, voglio dirti che a lei ho dato il mio cuore e adesso aspetto solo che me lo renda. Qualche tempo fa ho lasciato che se lo portasse via per curare un certo suo dolore, ma fino a quando questo corpo potrà resistere senza un cuore, resisterò, perchè è vero che senza amore non si muore, e la prova di questo è qui davanti a me, ma se vi si rinuncia gli occhi diventano inabili a discernere i colori, abituandosi a tristi tonalità di grigio.>> Fu proprio dopo avere proferito queste ultime parole che mi sorpresi di quanto fosse ancora forte la mia fede e mi accorsi di quanto le nostre certezze diventino più radicate nel momento in cui ci mostriamo pronti a difenderle. <<Vedo che la tua avidya è salda,>> esordì Øye <<non c’è modo per convincerti. Ti auguro di trovare ciò che cerchi e soprattutto che possa durare nel tempo.>> La gentilezza dei modi e la sincerità dell’augurio espresso mi fecero sentire in colpa per i toni duri che avevo usato nel controbattere alle sue affermazioni; in fondo anche io stavo giudicando il suo modo di vivere e questo non era giusto, così feci per dirgli qualcosa ma non ne ebbi il tempo: <<Adesso va e non indugiare oltre.>> E così chiuse il suo grande occhio.
Mi incamminai per il sentiero e da allora non posso dire che qualcosa sia cambiato. Sono molto orgoglioso di avere ancora la forza di credere in questo sogno, di renderlo realtà ad ogni passo che faccio. Forse ha ragione Øye, forse dovrei rivolgere la mia attenzione anche verso me stesso, ma voglio continuare a credere, almeno fino a quando non si consumerà l’ultima stella che ho cucita sul petto. Ogni tanto mi chiedo se non ci sia davvero una grande forza che muove le nostre azioni e che decide le sorti dei nostri incontri. Prima della terribile esperienza con Nomi, stavo per essere sopraffatto dal disincanto ed è stato proprio grazie a lui che ho trovato nuove energie. Poi Øye, giunto a ridarmi nuova forza proprio nel momento in cui il mio sentiero stava diventando sempre più stretto. Sembra quasi che entrambe queste creature, così diverse nella forma e nella sostanza, mi siano state mandate dall’alto, affinché io potessi continuare ad ascoltare ciò che sento nel profondo, senza la nefasta interferenza della ragione che spesso mi conduce al disincanto.
Con questo concludo la mia testimonianza, andrò avanti, nonostante le difficoltà, in attesa di un nuovo e definitivo risveglio.
Abbiate cura delle vostre emozioni, non lasciate che si smarriscano nell’appiattimento dei desideri di masse fragili e senza forza. Sono le uniche cose vere che abbiamo, l’unica forza e condanna che la natura ci ha donato. Piuttosto sappiate coltivarle, sappiate conservare per sempre il ricordo di quelle positive e sopportare quelle negative, che in fondo anch’esse fanno parte di noi.
Le mie sono tutte qui, attaccate alla carne e allo spirito. Oggi mi fanno soffrire, ma domani, ne sono certo, il vento saprà pulirle per bene e migliaia di stelle di stoffa brilleranno su questo petto stanco, fin quando del dolore non sarà che ricordo.
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(da Linea di confine, una favola d’amore. Di Nicola Randone con il contributo di Emanuela Fragalà)
ciao zapruder… con molto piacere, avevo già dato un occhio al tuo blog, fa sempre piacere un pò di liberainformazione
Grazie del tuo link…
ti ho inserito tra i “blog e siti amici” Puoi far lo stesso?
grazie
ciao