Fausta

13 Novembre 2003
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di franc’O’brain

«È stata lei! Io sono innocente!»

L’indiziato esordì così.

«Sì, sì…» Il sergente ridacchiò. Poi disse agli altri: «Accomodatevi. Lei avvocato, lì».

Del gruppo appena entrato faceva parte un uomo corpulento e dall’aria dura. «Grazie», disse questi. «Mettetevi comodi. Sergente, voglio stare tranquillo, stacchi il telefono.»

«Certo, ispettore.»

«Allora, Fog. Racconta.»

Il giovanotto di nome Fog si rigirò inquieto sulla sedia. Le pareti erano dipinte in un verde pallido: da far torcere le budella. Il tavolo era duro e freddo… Preferiva comunque trovarsi lì, nella stanza degli interrogatori, che non in cella. Gliene avevano assegnata una particolarmente umida e lurida.

Il duro in borghese gli piantò addosso lo sguardo. «Allora, com’è andata? Vuoi che ti faccia io le domande o preferisci parlare tu?»

Intervenne l’avvocato di Fog: «Forse è meglio che faccia Lei le domande. Il ragazzo è turbato».

«Lasci rispondere l’imputato, La prego… Perché dici che non sei stato tu a trucidare tutte quelle poverette?»

«Perché è vero!» esclamò il giovanotto. Si terse la faccia dal sudore. «Io ho fatto … altre cose. Ma ucciderle? Come avrei potuto? È stata lei

«Lei? La tua fantomatica moglie, che secondo le tue dichiarazioni ora è latitante? E che si chiama…? Bah, vedremo poi di ricordare i nomi. Forza, dicci la tua versione dei fatti.»

«Ho avuto tempo di ricapitolare l’intera faccenda, tutta la notte e quest’oggi», biascicò Fog. «La gattabuia serve se non altro a far funzionare il cervello…» Emise involontariamente una risata che, come si rese conto, suonava pazzesca, da alienato mentale. Anche il suo aspetto era a dir poco sconvolto. Chissà come appariva agli occhi dei suoi interlocutori! Non troppo positivamente, presunse guardandoli da dietro un velo di lacrime. «Dunque», cominciò, incespicando sulle parole. «Io ho sposato quella vecchia strega per i quattrini…»

«Guido! Non vieni?»

La presenza di quella donna era asfissiante, Guido Fog ne veniva risucchiato come da una vulva onnipresente.

"Vengo, racchia!" le disse mentalmente, staccandosi a fatica dal Gameboy. Racchia? In realtà Fausta era tutt’altro che brutta. Anzi: schiena dritta, capelli picei molto folti, viso arcigno ma dal sorriso accattivante… A quanto ne sapeva lui, sua moglie si manteneva giovane a forza di endovene e creme antirughe. Tra l’altro. Eppure, si capiva che doveva aver superato la cinquantina. Guido comunque non le aveva mai chiesto l’età. Era, questa, una clausola dell’accordo.

Entrò nella sala da pranzo e, evitando di guardare la consorte, puntò gli occhi sulla pietanza in programma per quella sera: un ammasso di verdure, broccoletti di Bruxelles, spinaci e quant’altro. A periodi di feroce voracità (quattro o cinque portate da mandare giù con una bottiglia di Veuve cliquot), Fausta ne alternava altri di rigida dieta vegetariana. E, siccome Guido doveva ingurgitare tutta la roba che lei approntava per sé…

Le si sedette di fronte. Il televisore barriva messaggi pubblicitari, poi partì la sigla del telegiornale.

La notizia di più rilievo, ovviamente, riguardava gli omicidi di Kyllburg.

Gli ultimi due cadaveri erano stati rinvenuti in un boschetto nelle vicinanze della città. Il "pazzo sfrenato" aveva compiuto uno scempio. Persino i giornalisti più smaliziati, accorsi come cani da caccia sul luogo del ritrovamento, si erano sentiti rivoltare lo stomaco. Uno scenario da incubo. Tranci di carne umana infilata nel cellofan e disseminati qua e là per il bosco inscheletrito, tra gli alberi smangiucchiati dalle piogge acide.

Guido gettò le posate sul piatto, con inconsapevole veemenza.

«Beh? Che hai?» gli chiese la moglie.

Lui mise su un sorriso ipocrita. "Non irritarla!" si ammonì. "Pensa al lascito…" «Non ho fame», la informò. Srotolati i suoi 185 centimetri, fece il giro della tavola e le depositò un bacio su una guancia. Quindi ritornò nello studio, dove si lasciò cadere sulla poltrona e riagguantò il Gameboy per riprendere il giochino lasciato in sospeso. I videogiochi erano una sua passione, insieme alle auto veloci e ai bei vestiti. Non era fatto per lavorare, lui; detestava le levatacce. Se ne stava lungamente a letto, cuocendo la sua esistenza a bassa fiamma. Non leggeva niente e si informava poco, evitando così i cattivi pensieri.

Ma non riuscì a continuare il gioco. Mentre premeva i pulsantini, vedeva con l’occhio della mente una lunga schiera di ragazzine: ninfette dalla pelle di lattice. Erano le "Meritevoli", come le chiamava Fausta. L’ultima, in particolare… Mentre Guido la stantuffava forsennatamente, la piccola lo aveva guardato in un modo… era come se lo leccasse con lo sguardo, cercando di carpirgli i pensieri.

«Che volete farmi?» aveva mormorato guardinga, sbirciando verso la donna lussuriosa che, poco discosto, si masturbava osservandoli.

Guido non le aveva dato risposta. Con segreta disperazione, aveva affondato l’Arnese™ fino all’inverosimile, strappando alla giovanissima vittima un ennesimo urlo. Al momento giusto, Fausta si era avvicinata con un sorriso da varano, nelle mani il solito calice e il solito stiletto d’argento…

«Continua», lo incitò l’ispettore, «siamo tutti adulti e vaccinati.»

«La supplico, gli faccia raccontare la storia a modo suo», intervenne l’avvocato.

«Sì, mi faccia raccontare a modo mio», disse Fog. «Mi sono preparato ogni cosa. Altrimenti non funziona…»

«E va bene. Vai!»

A quell’ora e in quel giorno, lo studio era invaso da una luce crepuscolare, e nella luce danzavano i fantasmi delle bamboline che Guido andava ad adescare nelle discoteche o davanti alle scuole. Alcune erano talmente belle che avrebbero potuto lavorare come ragazze-velina. Tanto giovani, fresche e sensuali che lo struggimento gli faceva salire le lacrime agli occhi. Ma, dopo che la loro breve vita veniva bruscamente interrotta, lui se le sradicava dalla testa. Anche se non era sempre facile.

Dall’esterno giungeva lo scroscio della pioggia. Era maggio, eppure continuava a piovere. Le strade di Kyllburg erano ridotte a un acquitrinio. Chiunque quella sera fosse passato per Grass Street (dove sorgeva la villa di Fausta Darken, in una zona decisamente fuori mano) e avesse sollevato gli occhi, avrebbe intravisto il corvo. Sì, eccolo di nuovo! Era rispuntato. Se ne stava appollaiato sul consueto cartellone pubblicitario, illuminato dall’alone di luce di un vicino lampione. Quell’uccellaccio andava e veniva regolarmente, e ogni sua apparizione faceva risorgere il terrore nei cervelli degli insonni. La sua presenza era un segno infausto: corrispondeva infatti a qualche nuovo omicidio.

Guido sentì una mano posarsi sulla sua spalla e sussultò; il Gameboy gli cascò a terra. Non aveva udito Fausta entrare. La moglie era spettinata, sembrava alticcia. Si chinò su di lui e gli diede un bacio con la lingua. La fronte, su cui scherzavano i riccioletti neri, era liscia e tersa come quella di una bimba; ai lati delle ampie narici, al di sopra delle labbra piene, si vedevano a malapena alcune grinze. Guido non aveva mai scovato un filo bianco nei suoi lunghi capelli.

Fausta gli si accovacciò sul grembo e, come per incantesimo, la nera vestaglia si spalancò, mettendo allo scoperto un corpo da dea. Anche le mutandine erano nere, e così il reggicalze. «Non mi deludere», lo avvertì con voce roca. «Fammelo ben bene, come a una delle Meritevoli.»

Guido le strappò gli slip, cercando di non mostrare il malumore che lo pervadeva. Dopo ognuno di quei convegni, si sentiva stufo e ammaccato, e al contempo più affamato di prima. Certo che Fausta era una gran cavallerizza: capace di fare la spaccata mentre lui la impalava…

Si erano conosciuti a Manhattan, durante uno psicoparty a cui Guido (allora sempre al verde e sempre sballato) si era autoinvitato. Estasiato dalla bellezza della donna, e ringalluzzito dalle droghe che in quell’appartamento passavano di mano in mano come bonbon, l’aveva trascinata dentro uno sgabuzzino e l’aveva montata ripetutamente. Lei ne era rimasta entusiasta. La verità è che Guido soffriva di priapismo, aveva dolori continui all’Arnese™. Per settimane si era iniettato cocaina per via rettale allo scopo di aumentare le prestazioni erotiche, e spesso, nel suo stamburgio di Brooklyn, poteva soddisfarsi solo con un pezzo di fegato comprato in macelleria, che avvolgeva intorno al pene prima di menarselo della brutta.

Una volta si era addirittura sdraiato a faccia in giù nel Central Park; aveva manovrato il suo membro fino a farlo sgusciare fuori dagli shorts e lo aveva infilato in un buco sul terreno. Era stato come scoparsi l’intero pianeta! All’improvviso un dolore atroce, tremendo. Si era rizzato di scatto, e i villeggianti che stavano a prendere il sole tutt’intorno erano inorriditi: una talpa gli aveva azzannato il glande, da cui il sangue schizzava copiosamente… Ma ora finalmente una donna vera. E che donna! Dopo il party, Fausta aveva insistito per rivederlo. C’erano stati un altro paio di incontri in luoghi "neutri", finché un giorno lei non gli aveva messo un contratto sotto il naso. Nell’apporre la firma in calce alla pergamena, Guido aveva intuito di essere in procinto di vendere l’anima al diavolo. Ma le condizioni erano troppo vantaggiose per tirarsi indietro. E poi Fausta era davvero una gran bella manza; per strada, uomini e donne si volgevano ad ammirarla…

Certo, la cerimonia di matrimonio gli era apparsa assai strana: a celebrarla era stato un nano con la faccia da stregone e due vagabondi alcoolizzati erano stati i testimoni. Ma lui non aveva mai sospettato che dietro a tutto ciò ci fosse qualcosa di marcio, che la cerimonia fosse solo una buffonata.

Si erano trasferiti a Kyllburg, dove Fausta Darken possedeva una villa da sogno. Villa che, secondo contratto, un giorno sarebbe passata nelle sue mani.

Al mattino fu svegliato da un fascio di sole che, fastidioso come una zanzara, andò a infiltrarsi fin sotto le lenzuola. Sollevò una palpebra e la sveglia gli disse che erano le nove. Aveva sognato tutta la notte di api, api pesantemente operose, e ora si ritrovava tutto appiccicoso. Il miele imbrattava il suo corpo e le lenzuola sopra e sotto. Gettò uno sguardo fuori: l’estate era tornata nel suo pieno fulgore. Si alzò e, dopo la doccia, fumò una Marlboro ascoltando Still A Fool, della Blues Band, che lo aiutò a scacciare definitivamente le api del sogno. Poi, come tutte le mattine, andò a trascorrere un’oretta nella sala del fitness. Fausta era già dentro la sua toilette privata, dove rimaneva almeno fino alle undici. Lei non dormiva mai: leggeva tantissimo oppure faceva della musica (suonava alla perfezione il piano, il violoncello, il flauto…) e il resto del tempo lo dedicava alla cura del fisico. Praticamente, non usciva mai.

Dopo gli esercizi ginnici, Guido ripassò davanti al bagno di Fausta. Uhm… Era ancora chiusa dentro. Allora fece una cosa che non aveva fatto mai: si chinò a spiare dal buco della serratura.

Per prima cosa vide nebbie fosforose e ammoniacali, sospinte da lievi brezze di zolfo. Quando le nebbie si diradarono, la visione migliorò: notò una serie di polverine e tinture allineate su uno scaffaletto, e davanti allo specchio c’era…

Si sentì affluire del sangue gelato nelle vene, una corrente di ghiaccio che gli pompò violentemente il plasma fino ai centri nervosi. Chi, o che cosa, era quell’essere? Malgrado avesse voluto urlare per il terrore, Guido continuò a spiare di malagrazia. La sua mogliettina stava lì all’impiedi, per una volta tanto senza maquillage. L’epitelio era incartapecorito e segnato dalle rughe, i seni cadenti, il ventre un torrido deserto… I suoi denti – quelli veri – si presentavano come mozziconi tenuti insieme da fili di tungsteno. In quanto agli occhi, impossibile descriverli; due cavità profonde in fondo alle quali brillava una luce sinistra. La divina Fausta: una mummia.

Dopo aver vomitato bene e a lungo, la donna si sciacquò la bocca. Quindi accese lo Specchio Sgamante e prese a rifarsi il trucco.

«Fausta Darken, sei un gran pezzo di figa», le disse lo Specchio Sgamante.

E lo era veramente.

Poteva avere sui quattrocento anni, ma ne dimostrava quaranta o poco più. Aveva fatto esperienza di ogni cosa, dal Rinascimento all’èra dell’atomica e a quella del silicio. Pagava il suo tributo alla longevità con la cronica mancanza di sonno. Un tipo come Guido Fog, senza ambizioni né eccessiva intelligenza, era per lei il compagno congeniale. Eppoi lui aveva i gusti giusti nel selezionare le prede… Con un singulto ferino, Fausta si ricordò di una delle prime pupe accalappiate dal suo fido servitore. La ragazzetta si era presto ritrovata vestita solo di una maglietta che mostrava il gatto Garfield; proprio carinuccia! Prima di finirla, le avevano infilato nel posteriore un porcellino d’India, tappando l’apertura. Lei aveva urlato spaventosamente. E, alla fine del trattamento, le pareti, già bianche, sembravano quadri di Jackson Pollock: tutti quegli schizzi rossi… cosa che aveva accresciuto la voluttà di Fausta. Del roditore non si era ritrovata traccia.

Finora il suo fido servitore non l’aveva delusa. Negli ultimi tempi, però, era diventato strano. Probabilmente avrebbe dovuto liberarsene… Del resto, di uomini come lui ce n’è a valanghe.

Staccatosi dal buco della serratura, Guido corse in cucina, dove, tutto tremante, accese la radio. Fissò la spremuta d’arance che lei, come di consueto, gli aveva preparato, ma non la toccò. «My God!» borbottò con una voce che non riconosceva. Si accorse che la radio suonava troppo veloce e pensò a un difetto dell’elettronica o a prove tecniche di trasmissione, ma, sotto sotto, intuiva che quell’inconsueto fenomeno rappresentava il prologo a un giorno totalmente diverso. Eh, certo, ormai tutti i giorni si prospettavano diversi per lui…

Fausta Darken: una donna multitasking, che tutto sapeva e tutto poteva. Ma che, inspiegabilmente, viveva come una reclusa. Non era una di quelle damazze sempre trafelate che partecipano a feste ed eventi "in" trascinandosi appresso uno strapazzatissimo marito, e ciò agli inizi gli era piaciuto: così lui poteva vivere la sua vita andandosene in giro per conto proprio. In seguito aveva cercato di convincerla a uscire, andare in discoteca oppureanzo nel nuovo locale libanese che faceva molto trendy. Sicuro, sapeva che in ogni dove migliaia di sguardi si sarebbero posati su di loro… In fondo formavano un insolito binomio, data la sua – di lei – non più verde età. Sembravano madre e figlio… Ma Fausta possedeva soldi, tanti soldi, e ciascuno avrebbe capito che Guido l’aveva sposata solo per tal motivo. Avrebbe voluto aggirarsi per le vie di Kyllburg con quella moglie bella e superricca e urlare alla gente: «Schiattate, invidiosi!» Ma nessuno avrebbe mai saputo com’è difficile la vita con una simile arpia. Singultò. Il suo matrimonio era un martirio!La moglie lo vezzeggiava, lo coccolava, ma così tante attenzioni lo lasciavano puntualmente stressato, ansioso, depresso. Lui usciva frequentemente, conducendo per così dire una vita parallela a quella coniugale, ma non poteva evitare di stare ogni tanto a casa con lei, e Fausta spesso lo costringeva a stare ad ascoltare mentre picchiava gli ottantotto tasti dello Steinway… Soltanto uno dei suoi numerosi talenti demoniaci. Finora Guido aveva pensato che quei talenti fossero il risultato della tipica educazione di una famiglia oligarchica, ma adesso considerava l’intera faccenda in ben altro modo.

Fausta – una Fausta fresca e olezzante come una rosa! -veleggiò in cucina, e Guido non riuscì a sostenerne lo sguardo. Fece finta di osservare il soffitto, come se si trovasse nella Cappella Sistina.

«Oggi ho bisogno di una Meritevole», dichiarò lei. «Meglio ancora: due.»

«Ubbidisco», ribatté Guido, andando a spegnere la radio. «Altri desideri, madame

Fausta gli sparò addosso un’occhiata sospettosa. «Tutto bene?»

«Certo», rispose lui. «Mi stavo appunto preparando per uscire. Credo che oggi prenderò la Porsche. Ah, senti… come mai non hai dormito neanche stanotte?»

«Qualcuno deve pur vegliare e dire al sole di venir fuori!» replicò lei, ridendo con occhi di satanasso. «Inoltre, non dormendo si può impiegare il tempo in cose più utili. Imparare uno strumento, per esempio, o leggere il leggibile…»

«Perché questa mania di voler sapere ogni cosa, di saper fare ogni cosa?» sbottò Guido, piccato. «Ciascuno dovrebbe fare quel che può, come e soprattutto quando può.»

«È una mentalità sbagliata. E pericolosa, se ci pensi bene. Bisogna tentare il tutto per tutto, invece; impegnarsi anche ventiquattro ore al giorno… Eppoi», rincarò la dose Fausta, «chi dorme ha spesso degli incubi. A proposito, hai fatto di nuovo quel sogno?»

Guido arrossì fino alle radici dei capelli. In un momento di debolezza le aveva raccontato di sognare spesso che sua nonna glielo ciucciava… Era qualcosa che lo umiliava, così come il ricordo (purtroppo nitido) del "gioco del biscotto". A quel gioco aveva partecipato un’unica volta, ai tempi della scuola. Il gruppo di scolari si era situato intorno a una sedia su cui era stata posta una fetta di pane tostato. Poi avevano preso a masturbarsi selvaggiamente. Chi veniva per ultimo, doveva mangiare il pane tostato. Ovvio: era toccato a lui. Ma ormai il ricordo lo faceva più che altro sorridere, anche se allora aveva vomitato, naturalmente dopo essere stato costretto a ingurgitare quella delicatezza tra le pazze risate dei contraenti. Ad ogni modo, perché diavolo aveva confessato tutto quanto a Fausta?

Imbarazzato, disse: «Vado».

«Non mi dài un bacio prima?»

Si chinò su di lei e, gli occhi chiusi, le sfiorò uno zigomo. Fu stupito per l’elasticità della sua pelle. Dopo quanto aveva scoperto… La fissò in viso: un gran bel viso. Quegli occhi, quelle labbra rosse e carnose… Certo che doveva conoscerne di trucchi per trasmutarsi in quel modo!

«A pranzo ti farò trovare fusilli al verde. Okay?»

«Sì, chiaro», ribatté Guido vagamente, afferrando le chiavi della macchina. Fusilli al verde? Surgelati, ça va sans dire. E magari conditi con sugo di verginella.

Per prima cosa raggiunse un bancomatto, che gli sputò mille dollari. Parte della mattinata la trascorse in alcuni bar del quartiere più sciscì della città; infine parcheggiò la Porsche nelle vicinanze di un Istituto Commerciale femminile. Poco dopo le tredici vide uscire le prime scolare e si mise a studiarle con acribia. In quei mesi erano tornate di moda le "pin-up-girls", ovvero ragazze che si fermano i capelli sulla fronte con una mollettina. Stava da un pezzo lì, nella vampa del sole, quando sgamò le gemelle. Erano vestite uguali, con un abitino prugna, solo che portavano mollettine diverse. Una delle due aveva fermato la sua criniera con una farfallina colorata, l’altra con una brochette di brillantini da pretty girl. Per il resto erano perfettamente identiche, sia nel portamento sia nella voce.

Due Meritevoli! Non gli occorse molto per convincerle a salire sulla sua splendida vettura. Come comprese immediatamente, Sissy e Lilly erano le tipiche squinzie di un rione periferico: vaneggiavano di essere "scoperte" per poter entrare nel mondo dei ricchi, del glamour… Mentre berciavano eccitate, Guido occhieggiava apertamente verso le gambe di quella che aveva vinto la battaglia per sederglisi accanto (si trattava di Sissy? O di Lilly?). L’altra, seduta dietro, si era sporta in avanti e gli alitava sul collo zaffate di mentolo, facendogli intanto il solletico sull’orecchio con la sua chioma biondo ramata. Si vedeva che entrambe gli avrebbero dato tutto, e subito! Lui sorrideva, ma non era affatto su di giri. La sera prima, la moglie lo aveva letteralmente spompato. E poi quella terribile visione… Come avrebbe potuto convivere con una verità talmente lancinante? Aveva 29 anni e si sentiva vecchio. Vecchio e stanco, ma non ancora sazio.

Sissy si sorprese a essere tutta bagnata. Aveva inghiottito la pillolina magica durante l’ora di matematica e l’effetto perdurava. Anche Lilly appariva eccitata, ma lei, la cara sorellina, era sempre così. Non aveva bisogno di tossine quotidiane, lei. Entrambe erano abituate ai pedinatori, agli sgamatori, ma di rado venivano interpellate da un tipo così figo. Sissy prevedeva già un bell’amplesso a tre. Aveva alle spalle le sue brave esperienze e, al contrario di Lilly, non era più vergine. Adesso pregustava il momento in cui quel marcantonio dai capelli catafratti di gel avrebbe deflorato la sorellina, che, al pari di lei, in quel torno di tempo era prosperata incredibilmente.

Guido prese le due squinzie a braccetto e attraversò con loro il giardino. Arrivato all’entrata, fece loro cenno di entrare. Sissy eseguì senza indugi; Lilly avanzò timidamente. Da qualche parte della casa proveniva una musica spettrale: qualcuno suonava un compact con composizioni di Chopin, Schubert o vecchiume del genere.

«Da questa parte, prego», le invitò Guido, indicando una scala che scendeva nel seminterrato. Quello era l’antro della pitonessa, anche se le ragazze ancora lo ignoravano. Avrebbero fatto tanto d’occhi, le sciocchine… E difatti: Sissy e Lilly emisero degli "Oooh" e "Aaah" di stupore nel vedere il letto con le catene e, soprattutto, nell’accorgersi di un qualcosa che roteava lentamente… Quel qualcosa era il trono di pietra su cui sedeva Fausta. La Nera Regina, in abbigliamento succinto, si era ravvivata la faccia con una tinteggiatura fire arancione.

«Ave, frater », salutò la Signora, «superba soror tua te salutat

Poi prese di mira le due sorelline e nei suoi occhi guizzò un bagliore viperino.

Guido si mise subito all’opera con Sissy, che evidentemente non stava più nella pelle, mentre l’altra puella osservava ogni cosa a bocca aperta, simile a una bambola gonfiabile.

«Io… io voglio andarmene», balbettò Lilly, e sussultò quando la Regina Nera, ridendo fragorosamente, le si avvicinò facendo schioccare una frusta.

«In ginocchio!» ordinò la Signora e, poiché la piccola esitava, cominciò a prenderla a scudisciate.

Guido, intento a spogliare Sissy a colpi di lingua, si girò a guardare. Quelle piaghe sulla schiena della sempre più nuda Lilly… quel sangue che scorreva in rivoli, uno dei quali andava a sparire nell’interstizio dello spettacoloso sederino… quel volto innocente che affondava nel florido inguine di Fausta… Eh già, andava a finire sempre così. Tutte si assoggettavano alla Signora, perché, al cospetto di cotanta bellezza e di cotanta superbia, si vedevano ridotte a pallide spirochete finalmente consapevoli del proprio stato larvale. Arrapato al massimo, cominciò a strofinare il il Pistone del Piacere™ sul caldo corpo di Sissy. La pupa si leccò le labbra, fissando con famelico orrore l’occhio dell’Arnese™. Sprizzava salute da tutti i pori, la ragazzetta, e uno rimaneva a bocca aperta di fronte a tanta beltà. Ma Guido avrebbe fatto meglio a chiuderla, la bocca, perché Sissy sprizzava non solo salute, ma anche latte dalle sue tettine. Senza esitare, la gettò sul letto e la penetrò da tergo, con violenza inaudita. Mentre lei gridacchiava mordendo le lenzuola, lui mangiò l’acne che le costellava le spalle.

Fausta intanto smetteva di castigare Lilly e la faceva rialzare, per poi accompagnarla con andatura solenne fino al bordo del letto. La ragazzetta osservò per alcuni minuti la sorella che veniva presa allo spiedo, e ad un tratto, masticando sangue e umori vaginali, implorò flebilmente: «Anch’io, anch’io». Sembrava stesse mettendosi a piangere, ma il liquido che le gocciolava dal sesso la diceva lunga sul suo reale stato d’animo.

Guido non indugiò un istante: si staccò da Sissy, lasciandola a spisciolare sangue dall’ano e, giratosi verso la novellina, le intimò: «Succhialo!»

Lilly cadde come in preghiera davanti a quel membro paonazzo e tutto imbrattato e prese a ripulirlo con lingua d’agnellino, prima di cacciarselo in bocca. Guido le pompò senz’altro la gola. Nel frattempo, i suoi occhi saettavano verso la sua signora e padrona: Fausta era tornata ad accomodarsi sul trono di pietra; a cosce spalancate, si titillava il grilletto, che era straordinariamente lungo e turgido. Anche Sissy guardava la Signora, incantata. Non aveva visto mai, mai, un clitoride del genere. E, pur non essendo stata invitata a farlo, strisciò fuori dal letto e, a quattro zampe, si situò ai piedi della stupenda Mantide.

Affascinato da tanto assoggettamento, Guido grugnì affermativamente. Ma si scopriva anche colmo di livore e di repulsione. Diavolo d’una donna! Tra non molto, la sconosciuta che si diceva sua moglie sarebbe tornata a trasformarsi in un’esotica quanto spaventosa bruttezza, con la calvizie, i denti di tungsteno e tutto il resto. Nel rabbioso tentativo di narcotizzare questo pensiero, fece rialzare la puella, la sbattè sul letto e la sverginò con pochi colpi ben assestati.

«Sìii!» battè le mani Sissy, andando a guardarsi lo spettacolo da vicino. E, già che c’era, si mise a leccare i lividi testicoli dell’uomo. Questi, con il volto quasi a contatto con quello di Lilly, cominciò a muoversi più rapidamente, e persino una vergine come Lilly non potè nascondere il piacere che provava: mostrò il bianco degli occhi, simile a un’epilettica, ed emise un rantolio di evidente goduria, sebbene fosse tutta rotta, squarciata dentro e fuori. Il suo provar piacere fu sottolineato dal fatto che puntò i talloni sulla schiena di Guido, come a volerlo spingere maggiormente dentro di sé. Gli rivolse persino un’occhiata di supplica e di quasi-amore insieme, forse fantasticando che lui fosse il tanto decantato Principe Azzurro.

"È l’ultima volta… l’ultima" Guido giurò a se stesso, spergiurò. Sentì che stava per venire. Allora infilò il naso nella bocca della ninfetta (il cui alito non era più inodore) e, quando il suo membro scoppiò, inondandole la stretta vagina, lui soffiò forte da entrambe le narici, inondandole pure la gola di muco. Lilly spalancò gli occhi, sorpresa, inorridita e tuttavia ancora ottenebrata dall’atto sessuale. Si mise immediatamente a tossire, sputare, piangere, mentre Sissy, qualche palmo più sotto, si rizzava sorpresa e chiedeva:

«Che c’è? Che cosa è successo?»

Guido finì di costellare di gocce di sperma i corpi delle due sorelline, e già Fausta si avvicinava con lo stiletto e il calice.

«Che c’è?» continuava a ripetere Sissy. «Che accidenti le hai fatto?» Vide la Signora torreggiare su di sé e: «Nooo! Porci maledetti…»

Quando la lama le entrò nel basso ventre, la ragazzina arcuò la schiena come una gatta. Il calice si riempì prontamente di un siero color porpora, di seme e fluidi di vari. Il corpo di Sissy fu tormentato per alcuni lunghi secondi da un movimento sottocutaneo, poi i muscoli smisero di guizzare.

Sempre tossendo, Lilly assisteva alla scena inorridita. Cercò di fuggire, ma Guido fu lesto ad acciuffarla. La costrinse a prostrarsi davanti alla Signora e lei, piagnucolando, eseguì un ordine mai pronunciato, prendendo a mordicchiare l’inverosimile grilletto della donna come fosse un chewing-gum.

«Mmm…» miagolò la Signora, stupita da tanta insospettata perizia. «Magna cum laude, lesbichetta! Quasi quasi ti sei guadagnata di restare in vita… Potrei tenerti come mio cagnolino personale.» Poi però, senza indugi, affondò la lama nella nuca della pupattola, la quale crollò senza un grido, il dolce faccino atterrito dall’Ignoto e un rivolo di bava che le colava dalla bocca spalancata dallo spasimo della morte.

«Non potevi risparmiarla per davvero?» protestò Guido, imbronciato.

«Che dici, stolto!» lo richiamò Fausta, che si accingeva a riempire nuovamente il calice. «Dimentichi il mio il fabbisogno periodico di sangue umano? Tre volte al giorno mi applico dovunque del Veuve cliquot. Questo prezioso champagne sanguigno elasticizza la pelle ed evita il formarsi di rughe… Ma non basta certo per mantenersi giovani! Caso mai non lo sapessi ancora, l’essere umano è un miscuglio di acido ribonucleico e di ricordi, e occorre rinverdire continuamente gli uni e gli altri.» Detto questo, svuotò d’un fiato il recipiente di cristallo contenente il liquido fumante. Infine, detergendosi la bocca: «Forza, controlla se respirano! Bisogna stare attenti a non lasciarle in vita. Ormai non c’è niente che i rappezzaossa non possano rimettere in sesto…»

Guido andò a controllare. Gli occhi di Lilly erano spenti come due tombe. Quelli di Sissy, idem. Emettendo un lungo sospiro, andò ad afferrare l’ascia, mentre la Signora si apprestava a risalire le scale.

«Ah, una cosa», disse lei, girandosi con un elegante volteggio del suo mantello corvino. «Non è necessario farle a pezzi, stavolta, e nemmeno andarle a buttarle nel bosco. Dobbiamo trovare un altro "deposito", uno più sicuro… Ci penserò io a disfarmene, più tardi.»

«Infatti!» intervenne l’ispettore. «I cadaveri di quelle due disgraziate li abbiamo trovati seppelliti in cantina, e neanche tanto in profondità. Laggiù, nella villa abbandonata.»

«Perché "abbandonata"?» protestò l’imputato. «Non è abbandonata. Cioè… Non lo era. Fino all’indomani. L’indomani sono uscito di buon’ora per fare del jogging e soltanto allora, soltanto dopo essere tornato, trovai la villa in quello stato. Un rudere, come se nessuno vi avesse mai abitato! Il giardino sembrava una giungla. Il mio fuoristrada Suzuki, la mia Porsche e la mia moto non erano più parcheggiati lì. Tutte le stanze deserte, prive di mobili e coperte di ragnatele…»

«Te lo dico io come stanno le cose», tuonò l’ispettore. «Tu sei un personalità dissociata. Uno scapestrato senza arte né parte, e peraltro pervertito, che, trovata quella vecchia casa, l’ha usata per prodursi nei suoi terribili crimini.»

«Ma Fausta…»

«Se avevi una complice, sta’ certo che la scoveremo. Il suo nome però non è certo quello. Abbiamo controllato puntigliosamente, anche tramite l’Interpol: la presunta Fausta Darken non è registrata da nessuna parte.»

L’imputato fu colto dalle convulsioni. Lo trascinarono via mentre sacramentava non si sa contro cosa o contro chi, piegando le membra in pose raccapriccianti.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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