Il frutto dell’aborto

20 Novembre 1996
4 minuti di lettura

Nota dell’autore:

Francamente non mi è mai riuscito possibile concepire come un essere vivente, magari timorato di dio, cresciuto con quei valori che riconoscono alla vita umana il massimo rispetto, pronto a condannare pertanto l’assassino, in alcuni casi lo stesso suicida, possano schierarsi dalla parte dei cosiddetti abortisti. Ciò che mi è capitato di scrivere, uso il termine “capitato” perché è stato qualcosa che d’un tratto mi è saltato in testa e che è stato necessario esorcizzare su di un testo prima che come un tarlo mi divorasse il cervello, non vuole essere uno dei tanti messaggi “pubblicitari” su ciò che si deve o su ciò che non si deve fare, piuttosto è un invito a ragionare, a calarsi idealmente nei propri panni nel periodo più remoto della propria esistenza: alle origini. Il frutto dell’aborto dovrebbe essere questa metamorfosi mentale che consentirebbe a noi tutti di impedire quella manipolazione che i mass-media stanno attuando pian piano, con sempre maggiore vigore, sulle nostre coscienze.

Il mio interesse a questa grave malattia della società moderna, questo morbo che livella le coscienze, che non lascia più spazio allo svilupparsi di un senso critico, nasce da una triste esperienza personale, l’aver assistito impotente ad un omicidio legalizzato, l’averne seguito le fasi di persona; lasciate che vi racconti sinteticamente il fatto: eravamo buoni amici, lui aveva una ragazza… poi “l’incidente” e l’immediata decisione di rimediare.

Le preoccupazioni di “questi due” sono state essenzialmente cliniche: certo la ragazza doveva sottoporsi ad un intervento!

Non li condanno, come non condanno l’assassino o il ladro o qualsiasi forma di delinquenza, poiché la colpa non è loro ma della società che li circonda… certo forse ha maggiori torti chi sbaglia con la coscienza di fare qualcosa di sbagliato, forse abortire non è poi un omicidio consapevole, ma l’effetto di ciò che si è fatto non cambia; e se nel bambino di questi amici dovesse risvegliarsi nel nulla una coscienza, non gli basterebbero le parole per maledirli.

Siamo morti e nonostante ciò ragioniamo, osserviamo il mondo e discutiamo, soffriamo e amiamo, invidiamo; siamo in tanti, eppure ospitiamo una sola essenza, osserviamo ciò che ci circonda coi medesimi occhi, lo giudichiamo coi medesimi criteri, lo amiamo, lo invidiamo e ne soffriamo con uguale intensità.

Forse in niente differiamo dagli esseri viventi se non per un non trascurabile particolare che è l’esistenza: infatti noi non esistiamo, o meglio rappresentiamo un idea astratta scaturita dalla fantasia di uno sconosciuto scrittore che, dando voce alla morte, a ciò che per l’eternità è condannato all’insensibilità totale, descrive i lamenti di coloro cui non è stato concesso di scontare la vita. Un uomo si può definire tale in funzione dei suoi ricordi, delle esperienze della sua vita; chi non ha goduto della scintilla della coscienza, spiritualmente non può essere dissimile da un oggetto qualsiasi, ed è a tale oggetto che su queste pagine si dà coscienza, a questo oggetto idealmente si regala la possibilità di essere uomo. Molti di noi fluttuano in questa essenza dandole voce e sentimenti, pochi di noi ricordano i loro genitori; per coloro che hanno tale discutibile fortuna si tratta naturalmente di ricordi indotti, di ricerche minuziose da parte del nostro creatore sugli archivi macchiati di sangue degli ospedali. Molti di noi avrebbero piacere di raccontare le loro aprioristiche storie di vita sulla terra; le nostre mamme, o meglio coloro che hanno ospitato se non il nostro corpo almeno l’idea di noi dentro di sé, forse uniche particolarità che ci distinguono gli uni dagli altri fra coloro che almeno possiedono dei ricordi indotti di loro, sono donne di tutti i tipi: prostitute, donne in carriera, casalinghe, studentesse, impiegate, insomma donne di ogni genere che avevano in comune un solo pensiero, liberarsi della vita che portavano dentro. I motivi differiscono fra di loro: qualcuna non era pronta ad assumersi la grossa responsabilità di accudire un piccolo essere, altre non se la sentivano di abbandonare la propria creatura in un mondo malvagio, altre non avevano il denaro necessario per mantenere il proprio figlio, qualcuna era stata abbandonata dal fidanzato dopo aver dato la buona novella e troppo debole per affrontare tutto quell’inferno da sola preferiva liberarsene (del figlio), altre troppo impegnate a far carriera, alcune costrette dai rispettivi uomini, padri o fidanzati che fossero, altre per un incidente di vecchiaia, alcune per la paura di perdere la linea… donne che non ci volevano!

Abbiamo osservato il mondo a lungo, questo era almeno il desiderio del nostro creatore, abbiamo invidiato gli esseri della terra, dal più felice fino al più misero. Adesso il nostro cuore ospita un male terribile, un’angoscia che ci dilania rendendoci tristi, infinitamente tristi: la terribile ed impossibile constatazione di essere il frutto di un aborto, la peggiore condanna sociale che mai un essere umano possa subire, un’ingiustizia cui non si può rimediare o vendicare. Com’è fragile l’uomo e superficiale, lotta in virtù di ideali condizionato dal potere occulto del suo egoismo, chi crede questo chi quello, chi lasciasi trasportare dalla propaganda, chi dal personale interesse, chi lotta credendo di tutelare il più debole provocando invece danni indiretti di proporzioni inimmaginabili, danni alle coscienze. Quanto poco senso ha la vita per loro, quale meravigliosa esperienza per noi. Qualcuno di laggiù sostiene ingenuamente che una massa informe circondata da materia gelatinosa non può essere considerata un essere vivente, pertanto è lecito privarla della vita in casi estremi. Noi, dall’alto di questa ideale sfera creativa, osserviamo uomini che circolano sul pianeta, osserviamo masse informi miracolosamente trasformatesi in esseri pensanti che, a giudizio di taluni personaggi, potevano essere privati in maniera lecita della loro vita. Consentiteci della retorica, ma gettare in un cassonetto dell’immondizia quella massa informe e gelatinosa non significa forse negare a quell’uomo in potenza il diritto all’esistenza forse?! Perdonate, ma certe discussioni lasciatele alla divinità in cui credete, provate invece ad andare indietro nel tempo, a superare il confine dove si fermano i vostri ricordi e a riconoscervi in quella massa informe che siete voi stessi.

Con che diritto voi generanti tale Frutto dell’Aborto ci avete privati dell’esistenza, per quale assurdo motivo ci avete negato il privilegio di vivere, da quale osceno demone eravate posseduti quando declamavate in difesa della vostra scelta il diritto che un essere vivente viva dignitosamente e che non presentandosi tale fondamentale condizione dovesse essere soppresso, quali disgustosi e deformi vermi potrebbero arrogarsi un diritto così immensamente più’ grande di loro: il diritto alla vita, unico e fondamentale… perché !!!

Il nostro tempo è scaduto, la nostra ideale esistenza termina su queste righe.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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