Il mondo fuori

17 Febbraio 2020
9 minuti di lettura

Caro blog, oramai non ho alcun dubbio sul fatto che la nascita di Corrado Santiago abbia attuato in me dei cambiamenti così importanti per i quali nessun testo o esperienza indiretta sarebbero stati in grado di prepararmi. E’ chiaro che ad alimentare il senso di inadeguatezza al compito di genitore, cui ho il dovere di assolvere, ha sicuramente contribuito l’essermi crogiolato troppo a lungo nel ruolo di figlio: una debolezza che ho pagato a caro prezzo poiché ha risvegliato quella tigre di carta che se ne stava accucciata in un angolino della mia mente aspettando il momento migliore per attaccare.

In questi ultimi mesi ho impegnato troppe delle mie energie nel tentativo di rimettere ordine nella testa e l’ho fatto cercando di tracciare nuove mappe mentali che mi facilitassero l’orientamento in questo nuovo e sconosciuto territorio ove le vecchie indicazioni si sono rivelate fallaci ed oltremodo pericolose. Grazie al cielo ho avuto modo di rendermi conto che il problema non è tanto individuare la nuova strada (che in fondo è quella che deve percorrere ogni “sacco di saliva” che ci cammina a fianco) ma piuttosto demolire le abitudini di una vita intera e quindi tutte le mie personali convinzioni sul fatto che bastasse un cammino o una nuova canzone a rendere facile l’esistenza poichè per abituare la mente a farsi bastare i bisogni essenziali, sarebbero stati sufficienti pochi esercizi di presenza come ad esempio godersi il canto degli uccelli a primavera alla riserva di Vendicari, lasciarsi svegliare dalla calda luce dei primi raggi di sole ad ogni alba, godersi la dolce ombra di un albero ed un sorso di acqua fresca dopo ore di camminata per le mesetas etc etc (la lista era davvero lunga).

In altre parole, in questi ultimi anni non ho fatto altro che interpretare la parte del guru di me stesso illudendomi che di fronte alle difficoltà della vita bastasse “semplificarle” (o meglio banalizzarle) per evitare che condizionassero i giorni a seguire. Si è così svelato il significato profondo del mio archetipo junghiano e cioè “il viandante”: colui che osserva il drago a distanza non lasciando che si avvicini troppo alla sua strada; purtroppo il drago è sempre stato dentro di me, aspettava solo il momento giusto per saltare fuori demolendo in un attimo i miei castelli di carta.

Adesso che ho una visione più estesa della “malattia” che ha colpito la mia testa, mi è più chiaro il motivo per cui non mi sono mai sentito a mio agio con i conflitti di tipo relazionale: ogni qualvolta mi trovavo a tu per tu con qualcuno che avesse intenzione di procurarmi un qualsiasi danno, fuggivo, a discapito del vantaggio che avrei potuto ricavare dall’affrontarlo; scappavo, esattamente come una lepre davanti al più terribile dei predatori: peccato solo che troppo spesso ho lasciato che umani di infimo valore avessero la meglio su di me solo perché non volevo perdere il controllo delle mie emozioni.

Col passare degli anni questo modo di gestire i conflitti mi ha, ahimè, portato a diventare sempre più coglione… e già… non mi viene in mente una definizione migliore. Se devo pensare ai miei ultimi mesi a Catania, città siciliana dove i “coglioni” se li mangiano a colazione, non riesco a dimenticare la tremarella che mi ha preso quando ho “dovuto” chiamare una stronzetta che mi aveva tamponato dicendomi: “tranquillo, ti chiamo dopo” e non si era fatta sentire per il successivo mese. Io, da gran “coglione” appunto, non avevo preso neanche la sua targa, avevo solo il suo numero di telefono cellulare (al quale non rispondeva) e quella faccia da stronza stampata nella memoria perché vedete, quando sai già che ti stanno prendendo per il “culo” ancor prima che lo facciano, una parte di noi che probabilmente abbiamo ereditato dai rettili agisce in maniera preventiva registrando le informazioni essenziali: la targa non è contemplata perchè i rettili non sapevano leggere e scrivere, ma una faccia … quella se la ricordano anche i polli. Ad ogni modo, per rintracciare la bastarda ho fatto i salti mortali, e non vi descrivo qui la procedura per evitare di essere “ammanettato” per la violazione di un paio di leggi sulle intrusioni informatiche… insomma, sono riuscito a recuperare il suo indirizzo ed il numero di casa. Quando ho chiamato e la stronza ha risposto, invece di incazzarmi e chiederle perché non si fosse più fatta sentire, ho cominciato a balbettare dicendo “ma ma ma, nnnnoon ddddovvevi ccchiamare…” fin quando la mia compagna, disgustata dalla mia indolenza, mi ha tolto il telefono dalle mani e le ha detto “Senti paparedda (piccola papera), adesso vieni a casa nostra e ci paghi il cofano della macchina sennò ti denunciamo”, nel frattempo io anzichè starmene lì ad imparare, mi rifugiavo nell’altra stanza a fare esercizi di respirazione per riconciliarmi con la mia pace interiore. Alla fine, grazie alla mia ex compagna è andata bene: il danno è stato risarcito è giustizia fatta, ma ero ben lontano dalla risoluzione del vero problema, anzi… una volta accertato il fatto che ero diventato un “coglione”, ho indirizzato i miei sforzi alla ricerca di una giustificazione ed evocando il giudizio di un amico sono arrivato alla conclusione che ero il classico “good man” inglese che non si scompone davanti alla maleducazione degli altri. Purtroppo, a differenza del “good man” che non si fa certo mettere i piedi in testa e non ha difficoltà ad avanzare le sue richieste, io continuavo ad essere il “coglione” che preferisce farsi fregare pur di non essere costretto ad alzare la voce.

Come si dice: inutile piangere sul latte versato. Ho trascorso buona parte della mia vita a non far valere i miei bisogni e sopratutto a non pretendere ciò che meritavo. Sul piano professionale avrei sicuramente ottenuto di più, avrei potuto dirigere il settore IT di una grande azienda con uno stipendio a quattro zeri, ma questo non è il mio cruccio più grande, piuttosto, ciò che davvero rimpiango è non aver fatto abbastanza per la mia musica: l’essere stato incapace di bussare alle porte giuste accontentandomi di quello che mi pioveva dal cielo, solo per colpa della mia insicurezza cronica e per l’incapacità di fare delle scelte forti come ad esempio mandare a fanculo il batterista che riusciva solo a demotivarmi o cambiare quei componenti che sapevo non avrebbero mai fatto della musica il loro mestiere o ancora non avere problemi di tipo sentimentale nel cercare altri produttori che potessero spingere maggiormente il mio lavoro … insomma… il coraggio che ha un leader di una band di fare anche scelte difficili in nome dell’obiettivo finale e cioè vivere della propria musica. Per fortuna non ho mai avuto l’abitudine di incolpare il prossimo dei miei errori, se oggi sono arrivato alla triste consapevolezza che non vivrò mai di musica beh… so bene che la colpa non è nè del batterista, nè del produttore, nè del mio pubblico ma solo delle mie “non-scelte” legate alla filosofia “zero-problemi” che mi hanno condizionato l’esistenza precludendomi la possibilità di vivere altro, di sperimentare qualcosa di migliore in quel mondo là fuori di cui non ho mai voluto vedere le difficoltà e le brutture .

Il “mondo fuori” non è mai stato quello che credevo e a questo proposito, ricordo bene che qualche tempo fa un amico mi avesse rimproverato per la serenità che tanto decantavo dicendomi che passeggiavo per il mondo come uno zombie. Oggi comprendo più a fondo il significato di quella parola, uno zombie non fa altro che andare in giro a mangiare cervelli senza preoccuparsi che magari, alla finestra, un uomo gli sta puntando un fucile alla testa per porre fine alla sua esistenza. Come uno zombie non facevo altro che chiudere gli occhi davanti alle cose brutte (facendo quindi finta che l’uomo col fucile alla finestra non ci fosse) e pensare che la mia vita fosse tutta rose e fiori (cervelli da mangiare). Adesso quel katz di ottimismo fasullo da sfigato si è totalmente disgregato sotto la mascella cazzuta della mia tigre di carta e adesso che ci penso, in fondo è stato meglio così, se non l’avesse fatto avrei continuato a credere a tutte quelle cazzate new-age che inventavo, magari non avrei neanche avuto la forza di cambiare lavoro, di pensare un po’ di più a quello che oramai fa parte della mia vita e cioè la mia bellissima famiglia. Ma cosa ha liberato la mia tigre? Oggi credo di averlo capito: l’evento che ha interessato il mio corpo ad Aprile non si è limitato a spaventarmi terribilmente, ha anche innescato un’idea nuova o e cioè che, in barba a tutto il mio ottimismo, potevo “andarmene” da un momento all’altro. Solo l’anno precedente, cercavo di far capire a Giuliana preoccupata per la “tappa infernale” che dovevo compiere sulla Via de La Plata, che non era così facile morire. Ecco… quella era la mia convinzione, un’assurda favoletta che mi sono sempre raccontato perché incapace di accettare il fatto che la morte è una vera merda perché ti porta via le persone che ami senza chiederti il permesso e che può farlo fregandosene altamente che hai un figlio piccolo che ha bisogno di te.

Come uno struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, se dovevo spiegare a qualcuno il mio pensiero sulla fine di tutto, iniziavo citando Terzani: “moriamo perché nasciamo”, peccato solo che seppure avessi capito benissimo il senso di quella considerazione così illuminata, non posso dire che fossi davvero in grado di accettarne il significato perché avrebbe significato riconoscere che la morte avrebbe colpito me e i miei cari, e lo avrebbe fatto in barba a qualsiasi preghiera o destino. Accettare la morte con serenità e farlo sinceramente è difficilissimo e ritengo che sia un traguardo che possono raggiungere solo pochissimi.

Ebbene, se il proiettile nella mia io-zona mi ha finalmente aperto gli occhi sulle responsabilità di una morte prematura, quello che devo fare adesso è iniziare ad accettare che nel mondo non c’è solo lo yang: seppure possa dirigere ogni mia azione e pensiero verso quella direzione, ciò non significa che lo yin non sia lì pronto a colpire e a farmi vedere che col katz che è tutto rose e fiori, che la vita può anche essere una merda e che l’unica cosa che possiamo fare è accettare il male che ne proviene allo stesso modo in cui facciamo con il suo opposto. Forse per alcuni di voi è un discorso scontato e banale ma credetemi, per chi come me ha creduto di poter vivere alla giornata senza avere alcuna idea di cosa significasse davvero, beh… è un territorio del tutto nuovo. Chi vive alla giornata sa bene che domani potrebbe andare tutto storto, non si illude che ogni giorno sia bello solo perché gli uccellini continuano a cantare ed il sole a spuntare, se una mattina ti svegli e devi combattere l’intera giornata con delle sequele interminabili di attacchi d’ansia, del sole e degli uccellini non te ne frega proprio un bel niente, e non sono così ingenuo da credere che gli attacchi d’ansia siano una cosa seria, in realtà è la tua mente che ti prende per il culo… figuriamoci quindi quando si tratta di affrontare problemi reali come ad esempio una vera malattia.

Adesso vi chiederete qual’è stato il passo successivo. Eccovi accontentati, la prima domanda sensata che ho iniziato a pormi ha riguardato la causa prima che mi ha portato ad essere così disgustosamente finto ottimista. Fino a qualche giorno fa ho creduto che la mia inabilità a gestire l’ingestibile fosse stata determinata da un’esperienza sentimentale con una persona talmente nera che se non mi fossi inventato qualcosa per tirarla su, beh… ci avremmo rimesso entrambi le penne. Oggi invece, con una consapevolezza che matura ogni giorno di più, mi rendo conto che la sua genesi ha origini molto più antiche e profonde. Provo a spiegarmele:

se vi piace la vita facile e volete dedicarvi solo a ciò che vi appassiona, quale migliore soluzione del delegare tutte le incombenze noiose del quotidiano, partendo anche dalla semplice scelta di cosa mangiare a pranzo e, una volta a tavola, fruire di continui promemoria sulle quantità di cibo solido da ingurgitare e sui tempi e le dosi dell’acqua da tracannare. Ecco, non importa che tu sia un grande scrittore o un affermato dirigente, nel momento in cui decidi di delegare ad altri le scelte dei tuoi bisogni più primitivi, rischi di contaminare la tua capacità di scegliere e quindi di crescere.

Qualche tempo fa ho visto un corto della Pixar fantastico… Piper. La storia è quella di un piccolo piovanello che deve imparare a procurarsi il cibo perché la mamma non ha più intenzione di imbeccarlo. All’inizio, nel tentativo di scovare le vongole sotto la sabbia, il piccolo uccellino viene sommerso da un’onda e non ha più intenzione di riprovare a trovarsi il mangiare da solo e così chiede alla mamma d’essere imbeccato, ma la mamma non lo asseconda e così, ispirato da un gruppetto di paguri, trova una modalità originale di procacciamento del cibo che gli permetterà di distinguersi da tutti gli altri. Adesso… se fosse riuscito a trovare il cibo come gli altri sarebbe andato bene lo stesso, la cosa importante è che non avendo avuto nessuno a dirgli come fare, Piper aveva fatto un salto in avanti nella sua crescita, in questo caso era andato persino oltre la mamma. Se la madre avesse continuato ad imbeccarlo, cosa ne sarebbe stato del piccolo piovanello?

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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