Forma inodore di materia grezza
è il cuore dell’uomo,
vuoto panegirico di capacità decantate
la sua ragione;
devo perdermi in un’isola cannibale
scambiando l’odio con una fantasia
per comprendere la solitudine dei sentimenti:
macchie di cenere sparse sul terreno,
tracce perdute di un fuoco spento da un addio.
Vanità, compagna dell’anno che ho perduto:
simulacro eroso dai colori sull’acqua.
Fede, una barca sul mare:
io e te, tigre del bengala
sconfitti dall’asiatica inquisizione.
Cuore, petto, sogno, terrore del pastore,
un romantico farfugliamento
in onore della vergine salata
che brucia al tocco delle parole:
blocchi di granito costruiti sul deserto
a forza di far piovere cemento sulla sabbia.
Libertà, abitudine, una fanfara rende onore
a te, prigione, che rendi l’uomo incapace
di spiegare le ali, per tagliare quel filo sottile
da tempo legato, alla misera boa dei naufraghi estinti.
Eppur va e viene, questa fede
e passeggia per i corridoi dell’esistenza
scaldando i vuoti e rubando al tempo
immagini dorate scevre d’ogni difetto
per portarle con sè ove puoi cambiare
un cuoco in una iena,
un marinaio in una zebra,
una madre in Orange Juice.
Eppure devo credere, voglio credere
che un posto resterà
anche se remoto
ove potermi sedere a gustare del riso con condimento,
accompagnato dalla risata di un cinese buddista.
Devo essere, voglio essere
colui che sente e non ragiona
perchè le strofe del vento
sono canzoni tristi
e quella tigre che porto dentro
ha già azzannato ed ucciso
il lercio terrore sghignazzante.
(liberamente ispirato a Vita di Pi)