8 Maggio 1992
Torno adesso adesso da Roma dove ho incontrato Marco, in cura oramai da tre mesi. Dopo tutto quello che è successo prima del suo internamento non avrei mai creduto di avere lo spirito e la forza necessaria per farlo, ma ho dovuto, se non altro per ciò che c’è stato tra noi. Non ho faticato molto nel raggiungere la zona, tutte le strade portano al centro di Roma, certo ho indugiato un po’ alla vista della clinica privata che ospitava il mio ex ragazzo, più che un manicomio sembrava la residenza di qualche facoltoso imprenditore. Non appena misi piede sullo zerbino con su scritto “Benvenuti” mi venne quasi da ridere, mi trattenei solo al pensiero che Marco, il mio Marco, era rinchiuso lì dentro e che da lì a poco l’avrei rivisto, dio solo sa, in che condizioni. L’atrio della clinica era piuttosto ampio con tanto di reception. Un infermiere mi è subito venuto incontro, gli ho spiegato velocemente che avevo preso “un appuntamento” con Marco e, con molto garbo, sono stata accompagnata all’interno dell’ospedale. Lungo il corridoio, quasi a mo’ d’esposizione, grandi vetrate tracciavano delle linee di demarcazione tra le “persone normali” e i pazzi: gente tremante accasciata in terra in preda a convulsioni, altri immobili come morti, altri ancora che urlavano come provassero le pene dell’inferno, ma, cosa che forse mi ha turbata di più, attorno a tutta quella disperazione, sulle finestre spiccano tendaggi raffinati e, sulle pareti, la carta da parati luccicava di fregi dorati. Per non parlare poi del mobilio e di tutto l’arredamento del salone, area destinata ai “pazzi non troppo pazzi”, insomma gente che aveva mantenuto un barlume di lucidità, tutte cose che sembravano piazzate lì forse allo scopo di compensare la tristezza e la disperazione che si respirava ovunque. Marco era in isolamento e indossava una camicia di forza, appena ne ho chiesto la ragione l’infermiere mi ha risposto che era una precauzione adottata solo nel caso di visite, che insomma Marco non ne ha alcun bisogno e che lo stesso isolamento è necessario per la buona riuscita della terapia cui è sottoposto. Dapprima l’ho visto attraverso il vetro della porta, poi, quando l’infermiere mi ha fatto entrare raccomandandomi di non avvicinarmi troppo, per evitare che s’impaurisse mi sono fermata a qualche metro da lui. Aveva l’aspetto e gli atteggiamenti di un folle, nonostante barba e capelli fossero rasati alla perfezione. I suoi occhi sembravano immersi nella contemplazione di qualcos’altro a me invisibile, fissavano il vuoto; il corpo, trascinato da una forza trascendente la mia comprensione, ondeggiava a destra e a manca lungo una linea irregolare tracciata da lui stesso, sul pavimento, con un gessetto. Canticchiava una strana canzoncina, ne ricordo solo i primi versi: “Sciogli le briglie dello spirito, lascia che si scomponga, riconoscilo libero…”; ogni tanto lanciava delle brevi occhiate verso di noi, ma non pareva riconoscermi. Sono stata un attimo a guardarlo poi mi sono voltata verso l’infermiere che scuoteva il capo dicendo: “Forse oggi il signore non è in vena di ricevere visite”. Certamente non avrei fatto un passo in più, quell’uomo non sembrava per nulla il mio Marco, avevo deciso di tornare indietro ma sulla soglia della porta mi chiamò: “Barbara, ti prego, non andar via”. Dalla reazione dell’infermiere che si era subito precipitato a sollevare la cornetta del citofono, credo per chiamare il medico, ho capito che non erano certo frequenti dei momenti di lucidità. Subito lo raggiunsi rassicurandolo che sarei rimasto e, dopo essermi accovacciata vicino a lui, lo salutai: “Ciao Marco, sei felice di vedermi?”. “Non sono così folle da aver dimenticato il tuo viso dolcissima ragazza”, si era preoccupato di rassicurarmi sul fatto che non mi aveva dimenticato. “Come stai? Bada che tutti gli amici in città aspettano il tuo ritorno a casa!”, a quella domanda non ha risposto, sembrava non comprendesse in pieno il significato delle mie parole. Forse non si rendeva conto di essere rinchiuso in una cella imbottita, forse viveva interiormente non curandosi di ciò che lo circondava.
Ho chiesto all’infermiere di slacciargli la camicia di forza, ed in quel momento ho notato il dottore, che fino a quel momento si era tenuto in disparte ad osservare i nostri movimenti. Stringendomi la mano il medico non ha mancato di presentarsi: “Piacere signorina, Eugenio Cavalli, il dottore di Marco. Prego, continui col suo amico come aveva cominciato, se non le dispiace assisterò alla conversazione da una stanza vicina grazie all’aiuto d’alcuni microfoni ben nascosti e di una telecamera che sta proprio lassù”, e con la mano faceva cenno verso uno specchio posto sul soffitto. Naturalmente ho acconsentito, immaginando lo scopo terapeutico della cosa, rivolgendo poi lo sguardo verso Marco che l’infermiere aveva finalmente liberato dall’ingombro della camicia di forza. Sotto lo sguardo attento dell’infermiere mi sono avvicinata a lui salutandolo con un bacio sulla guancia. Adesso il suo volto sembrava tornato normale, le evidenti alterazioni somatiche che mi avevano turbato in principio erano scomparse dal suo viso, per un momento avevo dimenticato persino di trovarmi di fronte ad un folle. D’un tratto si mise in piedi per venirmi incontro. Sul momento non nego di aver avuto paura, lo stesso infermiere si era messo in agitazione tenendosi pronto ad intervenire, ma quando ha allungato la mano per accarezzarmi i capelli, subito mi sono tranquillizzata, i suoi occhi puntavano i miei e ne traspariva una tristezza infinita, le sue mani non cessavano di accarezzarmi dolcemente. D’un tratto scoppiò in lacrime coprendosi il viso con le mani, un attimo dopo era già calmo, sembrava imbarazzato e confuso, chinava la testa e di tanto in tanto mi guardava con la coda dell’occhio. Gli ho chiesto cosa stesse accadendo e per quale motivo si fosse comportato in quel modo, ha risposto: “Ho sentito il bisogno di farlo, era da tanto che non ti toccavo. In questa solitudine non c’è altro che noia, né dolore né felicità, sola noia”. Gli ho domandato di che solitudine parlava: “Non lo sai, è tutto un concentrato di colori” ha risposto, sicuro di sé e delle sue sensazioni “Ne puoi trovare di tutti i tipi, dal rosso al lilla, dall’amaranto all’arancione con sfumature di verde… di tutti i tipi, di tanto in tanto scorgo dei vermi variopinti che mi tengono compagnia, in quei rari momenti mi concedo completamente a loro aprendogli le porte del mio corpo”. “ Li inghiotti?” gli chiesi, e lui:“Gli lascio via libera attraverso il mio esofago, se non lo facessi mi divorerebbero loro”. Dio, mi era sembrato più grave di quanto potessi immaginare, delirava con una tale lucidità da far sembrare folli coloro che non potevano vedere ciò che invece lui dichiarava di percepire chiaramente. Continuai la conversazione: “Cosa succede quando ti sottometti a loro”, ero intenzionata ad indagare sulle sue visioni. “Sogno di posti stupendi dove c’è tanto verde, sogno di te e dei tuoi splendidi occhi”, la sua voce aveva un tono da commediante, sembrava recitare. Continuai: “Che differenze rilevi fra questi sogni e la realtà”. “Non so cosa tu voglia intendere con la parola realtà, ma capisco cosa vuoi sapere: che sensazione provo stando con te in questo momento rispetto a quando mi trovo a sognare. Ti spiego: quando sono posseduto dai vermi la tua immagine è evanescente, cerco di abbracciarti ma le mie mani passano attraverso il tuo corpo”; perché distingueva con cognizioni temporali se poc’anzi ne aveva palesemente negato il significato. Ero decisa a capirne di più: “Se ritieni che ci sia questa fondamentale differenza fra il sogno e tale realtà… scusami, tale situazione… come puoi non riconoscere di essere fuori dalla dimensione nella quale dovresti trovarti, quella di questo preciso momento. Ricordi come ci siamo conosciuti e dove?”, la domanda aveva rivelato il paradosso nel quale era caduto e di certo scatenò in lui una profonda contraddizione interiore: “Io… non so dove, che senso ha la parola dove o la parola quando, qui tutto è immutabile e identico… ma”. Mi apparve profondamente scosso, non poteva negare di conoscermi ma non riusciva a ricordare dove… sembrava che avesse perso i concetti di tempo e di spazio o forse poteva anche averli semplicemente esclusi dal proprio campo di esperienze, come se nella memoria avesse conservato i personaggi e non i contorni. Gli ho menzionato i nomi di Fabio, Alessandro e Salvo; egli ricordava i loro volti ma non li associava alla parola “amici”. Non capivo neppure come avesse potuto riconoscermi all’esterno e non lo capiva neppure lui. Non appena gli ho chiesto di ragionare su ciò che stava sperimentando in mia compagnia, ne ha dedotto che si trattava di un sogno con delle caratteristiche diverse dalle solite. Non aveva certo un concetto limpido di realtà, e nei momenti in cui cercavo di farlo ragionare con logica, s’inventava dell’esistenza di diverse angolature percettive. Aveva trasferito tutto ciò che non aveva cancellato dalla mente nel suo mondo interiore, non si domandava se avesse potuto esserci una realtà differente, aveva incontrato delle persone nei sogni e lì si erano conosciute, o forse lì erano sempre state presenti. Non riuscivo a spiegarmi cosa poteva essergli accaduto, quasi istintivamente mi sono inginocchiata pregando Dio perché lo liberasse da quell’allucinante condizione. In quel momento accade l’inaspettato, al solo sentire nominare il Signore Marco si turbò profondamente e guardandomi con espressione delusa gridò: “Anche tu fai parte del complotto, tutti nei miei sogni pregano il signore, da te non me lo sarei certo aspettato, avevamo promesso di dirci tutto con onestà”. Stupita gli ho domandato di quale complotto stesse parlando, s’infuriò, accusandomi di averlo tradito: “Volete fregarmi ma non ci riuscirete, Dio non esiste e tutti voi lo sapete, solo non volete farlo sapere a me. Credi che non abbia capito che gli stessi atei, messi lì apposta per sviarmi dal pensare ad una congiura, tralasciano nei loro testi delle riflessioni importanti che spiegherebbero ogni sorta di dubbio? Pensate che sia uno sciocco per non comprendere che si tratta di un complotto ai miei danni? Volete illudermi perché credete che non sia capace di affrontare il duro colpo?… vi sbagliate, ho accettato tutto questo da tempo ed è inutile continuare quest’ignobile farsa. Barbara, proprio da te non me lo sarei mai aspettato!”. Si avvicinò, toccandomi, come per constatare che fossi reale e, spaventato, si coprì gli occhi gridando: “Tu non sei reale sei un sogno… no, un sogno è reale, tu sei un sogno… non sei qui, sei un sogno… reale, cosa è reale…”. Era confuso, sembrava che cominciasse a prendere contatto con la realtà, ad uscire dal proprio guscio. Poi si alzò fissandomi con uno sguardo supplicante, come se desiderasse che lo aiutassi… c’era una parte di Marco in lui. Gli sono andata incontro e, stringendogli le guance con le mani, l’ho baciato con passione. Lo baciavo e gli gridavo che quella era la realtà, gli gridavo di venire via con me nella realtà, continuavo a baciarlo passandogli le mani fra i capelli e lungo il corpo. Forse ho creduto che con quel gesto avesse potuto tornare in sé, o forse dovevo farlo perché, diamine, dovrei spiegarlo al mio ragazzo attuale il perché. Non importa, importa invece la sua reazione successiva: si è divincolato da me cominciando ad emettere degli strani suoni gutturali, poi ha cominciato a picchiarsi furiosamente il capo e si è ficcato le dita fin dentro gli occhi. Fortunatamente l’infermiere non ha tardato ad intervenire, e, dopo averlo immobilizzato, gli ha fatto indossare la camicia di forza; aveva gli occhi macchiati dal suo stesso sangue e il volto tornava ad assumere la fisionomia di quello di un folle. Mi ha persino urtato nella sua corsa insensata ed è stata una fortuna per me che non fosse di costituzione robusta; sbatteva nelle pareti continuando a gridare come un forsennato, gli chiedevo di smetterla, ero terrorizzata. L’infermiere dovette trascinarmi a forza fuori della camera, non volevo lasciarlo in quelle condizioni. Quando la porta imbottita si chiuse alle mie spalle, ho cominciato a piangere forte, dal modo in cui urlavo avrebbero potuto rinchiudere pure me se non avessero avuto modo di seguire i fatti. Senza congedarmi sono scappata dalla clinica dirigendomi direttamente alla stazione, volevo tornare a casa e parlare col mio ragazzo. In treno fortunatamente sono riuscita a calmarmi, il mio colloquio con Marco ha assunto quasi le caratteristiche dell’irrealtà, ho cominciato a sentirlo lontano, un po’ quello che si prova la mattina al risveglio da un brutto incubo. Devo nuovamente tornare in quella clinica e sono pronta ad affrontare il fatto; attualmente preferisco ricordare Marco com’era un tempo, le lunghe chiacchierate telefoniche, i suoi pensieri, il suo amore.
Barbara, studentessa di lettere, non riusciva a spiegarsi le cause dell’improvviso cedimento mentale di chi era stato, per lunghi anni, il suo più caro amico oltre che il suo amante. Aveva preso l’abitudine di annotare i dialoghi dell’amico su una vecchia agenda che conservava ancora vergine dai tempi del liceo.
5 Settembre 1992
Ti scrivo da Roma, mi ci trovo per motivi di studio; recentemente sono tornata nella clinica che ospita Marco. Dopo essere entrata mi sono premunita di chiedere del dottore col quale mi ero incontrata quattro mesi prima. Il dottore non si è fatto attendere molto, non aveva certo dimenticato la mia fuga improvvisa dalla clinica tuttavia, molto diplomaticamente, ha evitato l’argomento. Abbiamo parlato a lungo del suo caso, mi ha riferito che la visita aveva risvegliato in lui qualcosa di nascosto e che, se mi fossi tenuta a disposizione, la terapia sarebbe stata sicuramente più efficace; nessun altro, all’infuori di me, gli aveva causato quel cambiamento, evidentemente aveva tagliato i contatti con la realtà eccetto che con quella che mi riguardava. Tuttavia stento a convincermi completamente della teoria del dottore, l’atteggiamento di Marco e le sue stesse riflessioni non sembrano il parto della mente di un folle; un pazzo, per le assurdità che possa dire, non si lascia sbilanciare, nel senso che non tiene in considerazione eventuali obiezioni, né tanto meno riflette in maniera “normale” su ciò che gli si dice. Marco sembrava confuso, incerto, come se stesse, nonostante tutto, continuando a cercare, solo in maniera differente. Il medico mi ha avvisato di non assumere l’atteggiamento violento della volta precedente, lo shock di trovarsi improvvisamente di fronte alla realtà avrebbe potuto compromettere seriamente la sua guarigione. D’improvviso mi sono sentita addosso delle responsabilità da non prendere alla leggera: solo ed esclusivamente dal mio comportamento sarebbe dipesa la guarigione di Marco. Il medico mi consigliò di andare per gradi nei ragionamenti, evitando quelle brusche conclusioni che il suo intelletto non era ancora in grado di accogliere, teoricamente avrei dovuto abbattere gradualmente quell’insieme di sensazioni che si era costruito assecondandolo nel momento in cui avessi intuito che fosse in punto di scattare il meccanismo di difesa. Mi sono ritrovata nuovamente all’interno di quella stanza, Marco era immobile in un angolo, e mi fissava… “Sei tornata mia diletta” disse “hai desiderio di possedermi come la volta precedente?”, incuriosita gli ho domandato di quale desiderio parlasse. Lui non ha risposto direttamente alla mia domanda, sembrava non aver dato peso neppure alla sua stessa affermazione: “Ho avuto la breve sensazione che qui tutto fosse identico a sé stesso, in fondo ho cercato sempre questo. Poi arrivi tu e mi fai delle domande che non ho mai udito nella mia immutabilità, mi baci e provo delle sensazioni mai provate… chi sei?”, per un attimo ho creduto che fosse tornato alla ragione, gli ho risposto di essere la ragazza che aveva conosciuto anni prima in una piccola città e che si era tanto interessata a lui: “Tu sei l’ideale, il sogno! “ esclamò lui puntando i piedi in terra e alzando il braccio. Gli risposi: “Ma il sogno, come tu stesso hai affermato la volta precedente, è realtà.”. Di rimando lui: “Non il tipo di sogno di cui sto parlando, realtà in fondo è una sensazione della nostra mente, un rifugio al buio che ci circonda, i vermi sono l’illusione e da essi scaturisce l’allucinazione che ha i contorni e le caratteristiche dei sogni, realtà è sogno. Tu sei la proiezione ideale del mio intimo desiderio di fondere sogno con realtà”. No, non era affatto coerente in quel ragionamento, dava ai sogni caratteristiche di realtà non comprendendo neppure lo stesso concetto di realtà; comprendeva il significato della parola illusione e ad essa forse attribuiva le qualità della realtà, insomma era come se quella stessa illusione avesse potuto fondersi con ciò che gli stava intorno. In condizioni normali non avrebbe certamente fatto un ragionamento del genere, dal profondo del suo inconscio sono convinta che egli desideri di staccarsi da quel mondo, lo dimostra il fatto che mi abbia riconosciuto in una realtà diversa dalla sua, nonostante il suo ego intransigente si rifiuti di accettarlo. Non sono neppure certa di quello che sto scrivendo, tutto è confuso e non sono certo un’analista per capire cosa nasconde il suo cuore di così terribile da costringerlo a fuggire da questo mondo: la mia realtà. Quando gli ho domandato in che modo mi vedesse mi rispose che poteva cogliere, in ogni porzione del mio corpo, l’infinito, adducendomi come spiegazione che ogni cosa si estendesse e si riducesse all’infinito. Si era forse liberato dalle catene dei sensi nella sua follia, forse la sua mente scorgeva unicamente la realtà invisibile che sta dietro ogni singola cosa. Mi venne improvvisamente alla mente una frase di Blake: Se le porte della percezione fossero purificate, ogni cosa ci apparirebbe come in realtà è, infinita. Aveva varcato realmente quelle porte e non era più riuscito a trovare la strada per tornare indietro? Dopo essermi congedata da lui mi sono recata dal dottore che nel suo studio era intento ad elaborare in termini di psicanalisi tutto ciò che Marco aveva detto. Gli ho spiegato ciò che pensavo al proposito, ed egli mi lusingò sul fatto che la mia non era certamente una teoria da scartare, ma la scienza psicanalitica aveva già risolto un caso del genere anni prima a giudizio del medico. “Marco è affetto da una forma di malattia mentale che causa una rimozione a livello inconscio di ogni esperienza dolorosa creando in sua vece una realtà presa a prestito dalla personale esperienza anche onirica” recitò accademicamente il dottore. Ciò avrebbe spiegato la presenza dei vermi che, in passato, assimilava ad uomini e che gli davano la possibilità di aprire una finestra sul mondo reale. L’unica cura efficace sarebbe stata quella di somministrargli gradualmente pillole di realtà approfittando di me, unico tramite fra il suo mondo e il nostro. Tutto questo fila perfettamente, mi chiedo tuttavia se il mondo di cui Marco parla non possa essere, anziché un parto della sua mente, ciò che realmente esiste attorno a noi, la realtà invisibile. Egli riesce a vedermi secondo le caratteristiche del suo mondo e in tal caso non sarei potuta appartenere alla realtà “reale” ma a quella che sta dietro le porte. Perché allora non riesce a riconoscere altre persone… forse finge di non vederle, per lui possono non avere importanza, forse per non essere seccato da uomini che non possono capirlo, forse per il “complotto”! Sono davvero cosi’ importante per lui, solo con me si degna di parlare? Eppure le sue parole hanno dato spesso torto al mio ragionamento, su certe cose mi è parso che mentisse. Certamente la sua mente non è uscita illesa da questo trapasso, certi suoi ragionamenti sono sconclusionati e privi di un qualunque aggancio alla logica (il complotto), il suo stesso comportamento non è mai uguale, spesso è preda di crisi e i suoni che emette non lasciano dubbio sul fatto che non sia totalmente normale. Non so se tutto ciò che sto dicendo si basi su dati o esperienze di tipo scientifico, forse sto pensando in maniera troppo contorta e ingenua dal punto di vista medico; la teoria del Cavalli comunque non mi convince granché. Domani tornerò da lui per continuare la terapia che ha proposto il dottore.
6 Settembre 1992
La situazione è complicata, Marco è coinvolto in qualche sporco imbroglio, riporto testualmente le parole scritte su di un foglietto che mi ha lasciato oggi prima che mi congedassi da lui:
“Cara Barbara, scusa se ti ho sconvolta con le scene di questi giorni, purtroppo sono costretto a fingere di essere pazzo, ti scrivo su questo foglietto perché la stanza è piena di microfoni. Ti racconto tutto dal principio: qualche anno fa ho scoperto un’attività di traffico di stupefacenti che mio zio ha avviato con la copertura di un negozio di pesca; ingenuamente ne ho parlato con mio padre credendo che avesse potuto aiutarmi a smascherare l’attività criminale, ignorando che persino lui ne era complice. La stessa sera, al ritorno dal lavoro, ho trovato lo zio a casa insieme a mio padre; mi hanno minacciato, poi tra di loro hanno discusso sulla possibilità di levarmi di torno, di uccidermi capisci? Mio padre ha convinto mio zio ad aspettare, con la scusa che avrebbe potuto convincermi ad entrare nel giro, probabilmente non se l’è sentita di uccidere suo figlio. La notte seguente è venuto a trovarmi di nascosto nel posto dove mi avevano rinchiuso, mi ha suggerito di unirmi a loro, se non l’avessi fatto probabilmente sarei stato spacciato. Fu allora che, ricordandomi di quel tale dell’antichità che si fingeva pazzo per non essere condannato a morte, simulai la follia. Sono stato piuttosto convincente, cominciai a blaterare frasi senza senso e per rendere tutto più reale mi avventai di testa contro un traliccio che mi stava dietro ferendomi gravemente. L’indomani il babbo convinse mio zio a risparmiarmi visto che nella mia follia non ero in grado di ricordare nulla. Mio zio non era completamente sicuro, disse a mio padre che aveva degli amici a Roma in una clinica psichiatrica, se fossi guarito ne sarebbe stato informato, se stavo fingendo sarei stato controllato, in nessuna delle due ipotesi avrei potuto fuggire o allontanarmi senza il loro consenso. Aiutami, ti prego… “
Marco deve essere liberato e solo io posso farlo, la porta della sua stanza è chiusa da un semplice chiavistello e dall’esterno posso aprirla. Libererò Marco e insieme denunceremo questi uomini terribili.”
La notte era abbastanza chiara, fu facile per Barbara entrare nella clinica da una finestra lasciata aperta sul retro.
Nonostante la mancanza d’esperienza in materia di salvataggi, riuscì ad eludere il guardiano che sonnecchiava raggiungendo presto l’area delle stanze. Si guardò intorno per accertarsi che non vi fosse nessuno, poi alzò con la massima cautela possibile il chiavistello che bloccava la porta.
Velocemente entrò nella stanza e vi trovò Marco che giaceva sull’angolo; lo scosse leggermente, lui si svegliò, aveva un’espressione curiosa in volto, come sorpresa. Barbara non se ne curò, lo abbracciò sussurandogli che lo avrebbe liberato e portato con sé, poi gli prese la mano.
Si alzarono entrambi, Barbara lo invitò a stargli dietro, fermandosi sulla soglia della porta diede un’occhiata veloce intorno e gli fece segno con la mano di seguirla.
Non ebbe il tempo di fare un passo oltre l’uscio, che si sentì afferrare alla gola da una presa potente, cercò di urlare ma un’altra mano aveva già badato a serrargli le labbra in una morsa terribile.
Barbara si sentì profondamente sciocca, – eppure le psicosi sono una patologia molto diffusa fra i malati di mente – avrebbe scritto.
Marco la tratteneva in una stretta soffocante, sentiva le labbra frantumarsi sotto la trazione di quella mano. – Ci sei cascata puttana! – gli bisbigliò all’orecchio – tutti voi volete la mia morte, credete che non lo sappia?! Sono andato troppo oltre -.
Barbara, troppo terrorizzata per valutare le parole appena udite, fece un ultimo sforzo per liberarsi, graffiò la faccia di Marco procurandogli un dolore tale da costringerlo a lasciare la presa alle labbra, poi gridò; si sentì del rumore nel corridoio, forse il guardiano che, svegliatosi all’improvviso, aveva fatto cadere la sedia.
Marco si girò verso la porta, avvertì il passo pesante e accelerato del guardiano che accorreva, – Puttana – gridò.
Con gli occhi iniettati di sangue, furioso, la girò verso di sé piantandogli le mani al collo e cominciando a stringere sempre più forte.
Barbara si divincolava disperatamente cercando di sfuggire alla stretta, intanto i passi del guardiano si facevano sempre più vicini ma questo sembrava non interessare Marco che continuava a stringere con tutta la forza che aveva in corpo.
Ad un tratto un rumore secco, ed il viso di Marco che si accasciava su di lei: il manganello del guardiano si era abbattuto sul cranio dell’assalitore.
Stremata, Barbara svenne.
Al risveglio si ritrovò in un letto, istintivamente cominciò a gridare e subito il dottore della clinica la raggiunse. Fu dura spiegare alla polizia cosa ci facesse con un pazzo pericoloso in quella clinica in un orario fuori delle visite, tuttavia, dopo aver chiarito le cose, gli fu concesso di andar via.
Tanti i pensieri che si accavallavano nella sua testa, non poteva fare a meno di pensare ai momenti che aveva trascorso con lui, all’affetto che aveva saputo regalarle e all’amore con cui l’aveva sempre ricambiata.
Raggiunse presto l’uscita della clinica, piangeva lacrime amare, teneva il volto basso. Immersa com’era nei suoi pensieri attraversò la strada senza accorgersi che era appena scattato il rosso per i pedoni, qualcuno dall’altra parte della strada gridava:
– Signorina, signorina… il rosso -. Si sa, a Roma le strade urbane in certi tratti sono come le piste di Formula 1, era destino che sopraggiungesse una macchina. Il guidatore aveva una fretta dannata, era in ritardo sul lavoro, non poté far nulla per evitarla, non servì neppure frenare, fra le grida poté udire il corpo della donna sbattere prima contro il paraurti per poi trascinarsi sotto la macchina dilaniandosi fra il fragore dei copertoni, lei poté solo accorgersi di quanto ingiusta fosse la vita e di quanto balorda potesse essere la morte.