Scratch my back, l’ultimo lavoro di Peter Gabriel, è uno di quelli che ha fatto più fatica a liberarsi dei miei pregiudizi all’ascolto. Credo che anche io, come molti, soffra del problema dell’orecchio conservatore, quel tipico atteggiamento mentale che con arroganza stabilisce quello che ti piace e quello che ti fa schifo precludendoti all’ascolto, attento ed ordinato, di qualcosa di nuovo. O beh, facile quando hai ancora 3 o 4 cd a casa essere aperti, difficile quando hai ascoltato più di 1000 dischi (e c’è chi ne ha ascoltati ancora di più) e sa bene (o crede di sapere) quali sono in suoi gusti.
Al primo ascolto e già al terzo brano cominciavo a preoccuparmi: e se fosse tutto così, mi chiedevo. Verso la fine quella sensazione è diventata certezza. Ok, ho pensato, Gabriel è impazzito, si è dato alle ballad, neanche una chitarra elettrica, una batteria, un basso mannaggia, solo la sua voce e l’orchestra, e anche pezzi non originali.
A quel punto l’ho tirato fuori dal lettore cd, l’ho chiuso nel suo bel Super Jewel Case (per chi non lo sapesse è sempre la confezione di plastica dei cd, solo con materiali più decenti, una forma più moderna e l’apertura facilitata), e l’ho riposto nello scaffale dedicato alla sua discografia.
Passa qualche mese, arriva il concerto a Verona… decido di risparmiare quei soldi per un altro tour. In fondo l’avevo già visto due volte e questo New Blood tour mi dava il sentore che sarebbe stato di una noia mortale. Te lo immagini, solo strumenti orchestrali e niente di elettrico.
Il tempo passa. Spostiamoci a qualche mese fa: una di quelle serate in cui ti vuoi accucciare con la tua donna dopo una cena con del buon vino e dimenticare che esista la televisione. Riproviamoci, dico, è pur sempre Peter Gabriel. Parte Heroes… una reinterpretazione intensa ed efficace del pezzo di Bowie, ricordavo di averla gradita e non a caso era il primo brano del disco: il primo brano è sempre il migliore. Poi arriva The boy in the Bubble di Paul Simon, a seguire MirrorBall, Flume (meravigliosa), Listening Wind che è persino meglio dell’originale dei Talking Heads, già alla versione Gabrieliana di The Power of the heart di Lou Reed sia io che Vera siamo in avanzato stato di liquefazione.. in senso positivo. Mi sono chiesto se fosse lo stesso album che avevo ascoltato mesi prima: l’orchestra è meravigliosa, sicuramente la migliore registrazione di archi, fiati, timpani e via discorrendo che abbia mai sentito, gli arrangiamenti sono curati in ogni piccolo dettaglio e la sua voce è lì, su quegli sgabelli, tra i leggii, gli archetti e il movimento incalzante del direttore d’orchestra; profonda, perfetta e soprattutto assolutamente “umana”.
Mentre pensavo tutto questo, e questo nei rari momenti in cui mi si concedeva una pausa dallo stato di trance in cui mi ero immerso sin dal primo brano, arriva My body is a cage degli Arcade Fire. Il canto di Gabriel, il piano, scuro e oppressivo sul cantato, mi hanno permesso di capire bene il testo e così alla fine arrivano, inevitabili, le lacrime: libera il mio spirito, libera il mio corpo. Lui quasi singhiozza, è toccante oltre qualsiasi cosa abbia fatto, la sua voce suona come la chitarra di Jeff Beck in Nessun Dorma, vibra e modula le note con deliziosa imperfezione.
A liberarci dalla tristezza arriva The book of love… ecco, qui capisci che in un cd l’ordine delle tracce ha sempre un senso, anche di questi tempi dove di album interi la gente non ne ascolta più, dove mescoli di tutto e di più sul tuo Ipod o nella libreria del computer e mandi in random un bel fritto misto di generi; ogni traccia nell’album di Gabriel è posizionata in maniera razionale ed emotiva, ti fa volare alto, poi ti scaraventa sottoterra e lentamente ti fa risalire.
L’ho ascoltato ancora e ancora, stavolta senza pregiudizi e con l’attenzione che bisogna riservare ad un cantante molto espressivo a cui piace sperimentare e a cui frega poco se chi ha amato la sua elettronica romantica, storce il naso davanti ad un estremo come Scratch my back, un album dove quello che senti è quello che esiste davvero.
Ancora un grazie a Gabriel per questo ennesimo capolavoro.
My Body is a Cage (Arcade Fire)
Il mio corpo è una gabbia
che mi impedisce di ballare con l’unica che amo
ma la mia mente ha la chiave
Sono in piedi sul palco
della paura e dell’insicurezza
è uno spettacolo vuoto
ma loro applaudiranno comunque
Il mio corpo è una gabbia
che mi impedisce di ballare con l’unica che amo
ma la mia mente ha la chiave
tu sei accanto a me
la mia mente ha le chiavi
Sto vivendo in un’epoca
che chiama l’oscurità “luce”
sebbene il mio linguaggio sia morto
le sue forme riempiono ancora la mia mente
Sto vivendo in un’epoca
di cui non conosco il nome
sebbene la paura mi impedisca di muovermi
il mio cuore batte ancora così lento
Il mio corpo è una gabbia
che mi impedisce di ballare con l’unica che amo
ma la mia mente ha la chiave
tu sei accanto a me
la mia mente ha le chiavi
il mio corpo è…
il mio corpo è una gabbia
noi prendiamo quello che ci viene dato
solo perchè tu hai dimenticato
non significa che tu sei stata perdonata
Sto vivendo in un’epoca
che urla il mio nome nella notte
ma quando arrivo alla porta
non vedo nessuno
Il mio corpo è una gabbia
che mi impedisce di ballare con l’unica che amo
ma la mia mente ha la chiave
tu sei accanto a me
la mia mente ha le chiavi
libera il mio spirito
libera il mio spirito
libera il mio corpo