L’energia

4 Novembre 2002
20 minuti di lettura

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Il guardiano del parco stava seduto di fronte a noi con le braccia conserte e lo sguardo distratto: -Questa panchina è umida-, le dissi, -si potrebbe andare in macchina…-.

-Già è umida la panchina-, gridò da lontano il custode, -non vorrete prendere la sciatica così giovani!-.

Il mio sguardo si sollevò in alto incrociando quello del custode che si limitò ad ammiccare con la testa, avrei voluto chiedergli che diamine c’entrasse lui coi nostri discorsi ma non era poi così importante e rinunciai, d’altronde era stata sempre Ivana quella preoccupata dalla gente e proprio lei sembrava non tenere in alcuna considerazione la presenza dell’uomo basso e lercio che ci stava di fronte.

-Allora, che ne dici di spostarci da qualche altra parte?-, ripresi io facendo finta di nulla.

-Non ho intenzione di andare da nessuna parte,-, rispose lei, -preferisco restare qui, il cinguettio degli uccelli e l’aria pura che si respira mi distendono parecchio. Piuttosto parliamo di noi! Credevo che avresti cominciato tu, ma forse ho sopravvalutato il tuo coraggio-.

Sentivo il sangue che saliva ferocemente al cervello, dovetti allungare il respiro per evitare di apparire emozionato; la fissai negli occhi per qualche minuto: cercavo la dolcezza dei primi momenti, tornavo con la memoria agli intensi attimi che avevano reso la nostra storia fuori dall’ordinario. Lei era ancora dentro me, ogni piccola porzione della sua anima era dentro me, non potevo farne a meno neppure per un attimo, sapevo che senza di lei niente di me avrebbe più avuto un senso, sapevo di non avere più un io indipendente e il mio futuro, la mia vita, dipendevano da quell’ultimo incontro.

Stavo per cominciare a parlare quando il custode cominciò a intonare una vecchia canzone, io sbuffai ad alta voce ma lei fece di più, si alzò dalla panchina, si avvicinò al custode e gli disse qualcosa alle orecchie, poi voltò le spalle alla triste figura che contemporaneamente si alzava per allontanarsi nel vialetto. -Cosa gli hai detto?- le chiesi incuriosito.

-Niente di particolare-, rispose lei, -l’ho solamente invitato a togliersi dalle palle!-.

Risi come si ride quando non si ha nient’altro da fare, decisamente in quel momento la ragazza che mi stava accanto non era quella dolce e garbata persona che avevo sempre conosciuto, a parte la classe con cui si distingueva per il lessico e il comportamento, solitamente evitava quei rapporti che esulassero dal semplice saluto con gli sconosciuti, aveva un sistema tutto suo per controbattere le provocazioni molto simile all’indifferenza. -Allora!-, esclamò lei impaziente, -dobbiamo davvero prendere la sciatica. E’ la terza volta che ti incontro qui, ti ho dato la possibilità di parlarmi ancora una volta, ho sottratto del tempo ai miei studi e adesso te ne stai in silenzio. Avanti Lucas, dimmi quello che mi devi dire e torna al tuo lavoro.-

-Non preoccuparti per il lavoro, ho preso il giorno libero, ho tutto il pomeriggio…-

-Non io!-, rispose lei con tono piuttosto deciso.

Certo Ivana non mi facilitava il compito, tral’altro ero riuscito a scegliere il giorno peggiore per parlarle, uno di quei giorni in cui ti alzi la mattina e, guardandoti allo specchio, ti riconosci come quello che si suole dire una faccia da culo, ed è antipatico sentirsi una faccia da culo quando parli con una ragazza, ci si sente sopraffatti dal timore di cadere nel ridicolo, ci si immagina che nella testa dell’altra persona passino pensieri del tipo: razza di scorfano, cosa crede di ottenere da me, non lo filerei neppure se fosse l’ultimo uomo sulla terra… e altra delizie che non contribuiscono certo a rendere la conversazione limpida e spontanea.

-E’ terribile quando in una coppia uno dei due smette di amare, si provano emozioni diametralmente opposte: chi continua ad amare vive nell’angoscia di non poter più risvegliare nel suo partner lo stesso sentimento, chi invece non ama più vive l’imbarazzo di chi deve convincere l’altro di un dato di fatto duro da accettare. Tu sembri aver saltato quella fase, non c’è comprensione in te, non c’è stato un momento in cui mi hai abbracciato per dirmi che ti dispiaceva o altre puttanate simili, del tipo: così va la vita Lucas, oppure, rimarrai sempre nel mio cuore, o magari, restiamo amici… buoni amici.-, la risposta di lei non tardò a giungere:

-Vorrei ricordarti, Lucas, che sei stato tu a lasciarmi, sei stato tu a dirmi che non c’era futuro per noi, che io ero una donna fredda e senza cuore, che ti stavo rovinando la vita-

-Sai, a volte ho l’impressione che tu sia un fottuto demone… tu stessa fra le lacrime mi hai rivelato di avermi tradito, la prima volta con Carlo, la seconda con Vincenzo, la terza volta scopro che te la sei fatta persino col mio migliore amico e avrei dovuto fare finta di niente, avrei dovuto continuare a fare l’amore con te consapevole che non ero l’unico ad avere l’esclusiva su di te… e poi… va beh, meglio lasciar perdere-.

-Il nostro patto è sempre stato quello di non innamorarci mai seriamente l’uno dell’altro, di vivere la nostra storia senza coinvolgimenti emotivi troppo seri, di essere più amici che amanti. Ti ricordi quattro anni fa, quattro anni fa era tutto perfetto fra noi due, grazie a me sei uscito dal tunnel della droga…-

-Già, ho smesso di farmi ma mi sono innamorato, e credo sia una cosa ben più pericolosa.-

-Allora torna pure a bucarti, io non posso farti da balia asciutta per tutta la vita. Sei sempre stato una persona debole, non hai mai avuto un briciolo di vera personalità; prima di incontrarmi vivevi in un mondo artificiale, dopo che mi hai incontrato hai preteso di vivere il mio mondo, cerca di fare dei passi per conto tuo, non credi che sia anche questo uno dei motivi per il quale il mio amore per te sia finito. Ti ho amato Lucas ma adesso, vedendoti ridotto così, riesco solo a provare pietà per te, ho troppi impegni per prendermi…-

Ivana si interruppe, un bambino tutto solo si era avvicinato a noi e stava seguendo il discorso. -Ciao piccolo-, disse lei cambiando completamente il tono di voce con cui mi stava assalendo prima, -cosa fai qui tutto soletto- Il bimbo osservava Ivana incuriosito, poteva avere cinque o sei anni, indossava una salopet jeans, ai piedi scarpette bianche, un berrettino rosso in testa e al collo una sciarpa verde, un contrasto di colori che non poteva non saltare all’occhio. I suoi occhi azzurri sermbravano non staccarsi da quelli di Ivana. Io assistevo alla scena distrattamente, dentro la mia testa tuonavano ancora le ultime parole della mia ex ragazza.

Innervosita Ivana riformulò la domanda al bambino ottenendo lo stesso effetto: immobile, con lo sguardo fisso sul suo, il ragazzino non accennava ad alcuna risposta. Nel mentre alcune foglie ingiallite si staccarono dal grande albero che ci stava di fronte e alcune di esse si posarono ai piedi di Ivana. Il bambino contrasse il volto in una smorfia simile ad un sorriso, raccolse due foglie da terra e le porse ad Ivana rivolgendosi poi a me: -Non lasciare che l’amore svuoti la tua anima, non ne vale la pena. -, e così voltandoci le spalle ritornò da dove era venuto ignorando Ivana che da dietro gli ripeteva se si era perso e altre stronzate simili.

– Precoce quel bambino! – esclamò Ivana, ma io non la ascoltavo, pensavo ancora a quell’ultima frase, non so se in quel momento stessi cercando di capirne il senso o se mi stessi chiedendo come quel bambino avesse potuto venirsene fuori con una frase di quel tipo: da chi l’aveva sentita e perchè l’aveva detta proprio a me. Ivana mi osservava inquieta, credo che mi abbia invitato più volte a scuotermi dal torpore nel quale ero caduto ma ricordo solamente le sue labbra che si muovevano, nessun suono, nessun’altra immagine. D’un tratto ebbi una formidabile intuizione, tutto mi fu più chiaro e non potei fare a meno di esclamare ad alta voce: -Niente di tutto questo è reale, sto viaggiando nella mia mente preda dei demoni del passato. Tu sei morta, sei morta da tanto tempo-. Le mie mani si schiantarono istintivamente su di lei che si dileguò come un fantasma, adesso gli uccelli non cantavano più e non batteva più il sole sulla mia panchina, la fontana aveva smesso di gorgogliare e sporgendomi col capo verso la vasca notavo i pesci che pian piano salivano a galla morti, tutto sembrava spegnersi, una sorta di emozione simile a quella sensazione che si prova quando si spegne il televisore prima di andare a dormire. Il custode del parco si affacciò dal vialetto e in un attimo trovai il bambino col berrettino rosso seduto sulla panchina al posto di Ivana. – Tutto muore attorno a noi -, esclamò il bambino – l’unica cosa che non dobbiamo permettere è che non muoia anche la nostra anima -. Il custode si avvicinò alla panchina, mi mise la mano sulla spalla e disse: – Coraggio ragazzo, l’amore è una causa persa… è un attimo di piacere che alla fine lascia solo un forte dolore, un dolore che allenta le fibre dell’anima, un dolore che normalizza, un dolore immorale, deforme, insensato. L’amore è una terribile malattia incurabile che ad ogni delusione lascia una ferita indelebile nell’anima; il nostro cuore deve percorrere sentieri ben più nobili per elevarsi, e se la tua anima è davvero speciale non tutto è perduto amico mio, alzati e sconfiggi la solitudine, alzati e sconfiggi l’amore -.

Io non capivo, non capivo davvero! Guardavo instupidito il vecchio e il bambino che, tenendosi per mano, scomparivano all’orizzonte del vialetto. Guardavo ancora quello che mi stava intorno e non riuscivo a darmi pace, non riuscivo a capire quale forza misteriosa si stesse impadronendo di me. Gridai il nome di Ivana con tutto il fiato che avevo in gola, poi cercai di alzarmi dalla panchina ma vi ero come incollato, il tempo stava peggiorando, il vento scuoteva le cime degli alberi e la nebbia si era già alzata al di sopra delle mie ginocchia. Ancora tentai di alzarmi ma il mio corpo non poteva staccarsi da quella panchina e intanto la pioggia cominciava a bagnarmi, poi la neve e infine la grandine che veniva giù dal cielo con chicchi grossi come uova. Ebbi paura e gridai aiuto, ma sapevo che nessuno avrebbe potuto aiutarmi, cominciavo a capire che stavo vivendo la mia più grande battaglia interiore, e solo questa presa di coscienza mi permise di sollevarmi dalla panchina e fuggire al riparo sotto il grande albero che per tutto il tempo aveva assistito a tutti quegli sconvolgenti accadimenti. Sentivo un gran freddo e lamentavo un forte dolore al capo ma mi sentivo al sicuro sotto quel grande tronco, sentivo di essere felice e non mi importava più di Ivana, non mi importava più di nulla, sarei rimasto sotto quell’albero per il resto della mia vita e, mentre acquistavo sempre più consapevolezza di questo, l’ambiente attorno a me mutava, la panchina di ferro che mi stava davanti cangiava come per magia in un salottino imbottito e gli spigoli dei bordi mutavano in merletti di seta. Incredulo feci per avvicinarmi alla panchina ma qualcosa di più forte di me mi induceva a non sottrarmi al caldo abbraccio del grande albero, non mi curai dello strano fenomeno e osservai ancora quella panchina, che non era più una panchina. Perduto nell’estasi della forte emozione non avvertii in principio che la mutazione non interessava solo quella che fino a pochi attimi prima era stata una triste struttura in ferro, chè tutto quell’angolo di parco stava mutando in concerto con essa: i pesciolini rossi della vasca, che fino ad un attimo prima erano morti, stavano trasformandosi, le loro forme si allungavano e il loro colore si schiariva sempre più: in uno strano e paradossale morphing quegli insignificanti pesciolini rossi si erano trasformati in trote dorate e la stessa vasca costruita in cemento aveva già i bordi di corallo; l’acqua, prima putrida, era limpida e splendeva ai raggi del sole che si era appena affacciato dalle nuvole illuminando tutto il parco. Ero circondato da bellezze fuori dell’ordinario: agli alberelli spogli e inespressivi si erano sostituiti alberi di melo e di pesco fioriti; ai sentieri in terra battuta viottoli lastricati di marmi; la natura sembrava cantare la sua stagione migliore, ed io ero lì, sotto il mio amato albero a bearmi di quello spettacolo incredibile. Poi tutto si fermò, le trote nuotavano nell’acqua limpida della vasca principesca, la panchina sembrava aver terminato la sua mutazione con tutte le altre cose intorno. L’esaltazione iniziale si dileguò in breve tempo, ad un primo momento di smarrimento seguì una spiacevolissima sensazione, fino ad un attimo prima non avrei desiderato nient’altro dal mondo, forse mi sarebbe persino bastato il mio albero, ma adesso tutto quello che mi stava intorno mi pareva fasullo, artificiale, se con gli occhi mi sforzavo riuscivo ancora a vedere quella panchina di ferro verde e arruginita dietro il salottino raffinato, e la stessa sensazione mi assaliva quando osservavo le altre cose che erano mutate. Voltai le spalle a quell’angolo di parco e adagiai il mio viso sopra il fusto del grande albero, stetti in quella condizione per parecchio tempo, giorni forse, prima di voltarmi e trovare ancora il salottino, la vasca delle trote, gli alberi di melo e di pesco, i viottoli lastricati di marmo: tutte cose belle, ma fasulle. Gridai aiuto, mi venne d’istinto, e in quel preciso momento avvertii uno scricchiolio alle mie spalle, il mio grande albero stava per cadere, il fusto volgeva all’indietro costretto da una lacerazione spontanea che aveva interessato metà del suo diametro. L’angoscia si impadronì presto di me, le mie funzioni raziocinanti erano ridotte al minimo quando tentai con la sola forza delle mie braccia di sorreggere l’enorme fusto che continuava a piegarsi sotto la trazione di una forza invisibile. Forse il solo istinto di autoconservazione mi consentì di mettermi da parte prima che l’albero si schiantasse con fragore al suolo. Sentti delle urla disperate da lontano, pianti di bambini misti ad un fragore di costruzioni che crollavano, udii delle esplosioni… la paura era tuttavia inferiore all’angoscia che si era impadronita di me. Mi misi a sedere sul salottino che quasi istantaneamente era tornato ad essere la squallida panchina di prima, voltai lo sguardo e notai che tutte le altre cose avevano riacquistato la loro forma originale, anzi tutto sembrava ancora più squallido e triste. D’improvviso mi tornarono alla mente le parole del bambino

– tutto muore attorno a noi -, d’improvviso tutto mi apparve più chiaro, mi ero innamorato nuovamente. Fui assalito da un attacco di ipocondria non comune, pensai che la mia mente non si fosse più ripresa dal forte dolore cui Ivana l’aveva costretta mesi prima, credetti fortemente di essere impazzito, di aver perso totalmente la concezione della realtà; un attimo dopo ero nella mia stanza, al buio, solo coi miei dubbi, solo col mio immenso dolore. -Si sarà trattato di un sogno… magari un sogno molto realistico- ripetei fra me e me, ma intanto una formidabile sensazione si impossessava progressivamente del mio corpo, qualcosa di simile a quel senso di smarrimento che si prova quando si stanno per perdere i sensi, la sensazione di scivolare pian piano nel buio dell’incoscienza.

Quando rinvenni dovevano essere passate parecchie ore, il ticchettio regolare dell’orologio che scandiva i secondi era l’unico suono che riuscivo a percepire, nient’altro. Era ancora giorno, osservavo dalla finestra la strada trafficatissima ma non udivo alcun suono al di là del solito ticchettio. Provai a gridare, ancor nessun suono, ancora quel monotono ticchettio. In un attimo fui preso dal panico, accesi l’impianto stereo e alzai il volume al massimo… niente, avvertivo le vibrazioni che le frequenze basse riversavano sulle mura del mio appartamento e sul pavimento, ma nessun suono. Corsi in cucina e mi avvicinai al lavandino, c’era qualche piatto ancora sporco nel lavabo, li presi tutti quanti e li scaraventai sul pavimento, ancora nessun suono. Gridai con tutte le mie forze e nel contempo scaraventai in terra tutti gli oggetti che mi capitavano sottomano, mi ero trasformato in una belva furiosa, credevo che la ragione mi stesse pian piano abbandonando, volevo oppormi ma non riuscivo a frenarmi, la paura aveva oltrepassato il limite consentito, solo un pensiero mi trattenne dal fare qualche pazzia: il ticchettio dell’orologio. Corsi ancora nel salone, l’orologio era ancora lì che ticchettava, lo afferrai e lo scaraventai sul pavimento con tutta la forza che avevo in corpo. Il ticchettio continuava a martellarmi ancora il cervello, cominciai a calciare la carcassa del pendolo con rabbia, gli ingranaggi erano tutti sparsi sul pavimento, il pendolo si era fermato ma ancora udivo quel maledetto ticchettio. Ancora infierivo sul povero oggetto quando presi coscienza che il ticchettio stava dentro la mia testa, mi calmai per un attimo ma non ebbi il tempo di riflettere che due robuste braccia mi afferrarono da dietro per trascinarmi fino alla porta. C’erano dei poliziotti, poi alcuni miei vicini, la signora della porta di fronte si agitava come una folle e piangeva, molte persone erano salite sul piano per vedere cosa stesse succedendo. Mi lasciai trascinare dalle braccia del poliziotto, avrei voluto opporre resistenza, avrei voluto fermarmi per discutere, ma quel ticchettio dentro la testa bloccava ogni mia riflessione, ad un pensiero razionale se ne sostituiva subito un altro e quel passaggio assurdo mi impediva di prendere una decisione, avevo perso il controllo del mio corpo, forse stavo davvero diventando pazzo. Sulla strada mi venne incontro Salvo, un mio caro amico. Capivo dai gesti che stava cercando di dire qualcosa al poliziotto che mi teneva, l’agente sembrava invitarlo ad allontanarsi ma Salvo doveva avergli detto qualcosa di convincente perché in un attimo allentò la presa e mi mise di fronte a lui. Le labbra di Salvo si muovevano, dai suoi gesti intuivo che mi stesse domandando cosa fosse successo. Io cercavo di spiegarmi con parole, non sentivo la mia voce ma gli spiegavo che d’un tratto ero diventato sordo, che udivo solo un ticchettio; ma a giudicare dalla sua espressione pensai che non fossi riuscito a farmi capire. Cercavo ancora di spiegarmi ma Salvo si allontanava da me come spaventato e in un attimo l’agente mi trascinò lontano da lui verso la volante che ci attendeva. Cominciai a piangere, almeno credevo di piangere perché, a giudicare dagli sguardi delle persone presenti, sembrava che emettessi tutt’altro tipo di suoni; molti aggrottavano la fronte e accelleravano il passo, le madri prendevano in braccio i loro bambini per allontanarsi velocemente da quel tratto di strada, lo stesso agente di polizia affrettava la sua corsa verso la macchina. Quando fui dentro l’automobile osservavo dal finestrino gli sguardi delle persone, notai anche Salvo che mi guardava impietrito, poi la macchina partì. Cercavo di spiegarmi, facevo delle domande ma sapevo che nessuno era in grado di capirmi e d’un tratto mi chiesi se non fossi impazzito davvero. Non pensavo più al fatto che fossi rimasto completamente sordo, non pensai più allo strano ticchettio, tutti i miei pensieri si concentrarono sul fatto che non riuscivo a comunicare. Nel frattempo avevamo già raggiunto la centrale di polizia, fui trascinato fuori dalla macchina e portato dentro come un vile delinquente, mi fecero spogliare nudo e mi tolsero gli effetti personali. Non tentavo più di comunicare con quella gente, e loro stessi sembravano non curarsi più di me… avrebbero dovuto identificarmi prima di sbattermi in cella, e poi perché dovevo andare in cella, in fondo avevo rotto qualcosa nel mio appartamento, non era necessario che mi rinchiudessero come se fossi un pericolo per la società. Non mi opponevo comunque, lasciavo che quella gente facesse di me ciò che voleva come se avessero ragione a priori delle loro azioni. Mi rinchiusi in uno stato di apatia che durò parecchi giorni, poi tornai a riprendere consapevolezza del mio stato, cominciai a chiedermi perché nessuno dei miei amici si fosse fatto vedere. Quando il secondino entrò nella cella per portarmi il solito vassoio di porcherie, cercai di farmi capire a gesti, avevo paura che la mia voce avesse potuto turbarlo come aveva turbato Salvo. Per qualche minuto l’agente si fermò a guardarmi, poi scuotendo la testa si allontanò chiudendo la porta dietro di sé. La disperazione si impadronì di me, gridai come un folle e cominciai a picchiare coi pugni sulla porta; perché stavo lì dentro, perché nessuno si preoccupava di chiedermi chi fossi o di spiegarmi cosa avessi fatto, perché non c’era stato ancora un processo, perché della gente che mi conosceva nessuno si era preoccupato di farmi visita?! Mi sentivo come cancellato dal mondo, la mia stessa coscienza sembrava andare e venire, c’erano dei momenti in cui non mi importava di nulla, momenti in cui mi disperavo anche se mi mancava la volontà di venirne fuori, come se non fossi io che stessi vivendo quella situazione, come se fosse tutto un sogno. Mi guardavo intorno, guardavo le pareti della mia cella, erano irregolari come il soffitto, e poi dalla finestrella in alto non penetrava mai nessuna luce. Venne la sera ed io ero sempre più confuso ma stranamente non ero disperato. Cominciai ad avere la netta impressione di essere impazzito ma questa semplice sensazione mi impediva di crederlo davvero, guardai ancora la finestrella in alto, purtroppo non c’era modo di raggiungerla, la stessa branda sistemata in verticale non mi avrebbe mai permesso di arrivare lassù… e mi chiesi perché mai il soffitto era così alto. Raggiunsi la porta e d’istinto afferrai la maniglia, fu con mia grande sorpresa che la porta si aprì appena la spinsi in avanti; pensai che il secondino avesse dimenticato di chiuderla ma nello stesso tempo mi chiedevo come potesse esserci una maniglia interna nella porta di una cella. Approfittai di quell’occasione per uscire, non volevo realmente fuggire ma camminavo ugualmente lungo il corridoio deciso a scoprire cosa stesse accadendo. Raggiunsi la fine del corridoio e aprii la porta anch’essa stranamente libera da ogni serratura. La stanza che mi accolse dietro quella porta era enorme, un’enorme stanza con le mura pitturate di bianco e con una finestra simile a quella della mia cella. Dapprima non ci feci caso, poi notai tante piccole finestrelle alla base delle pareti, mi abbassai e vi guardai dentro: erano tutte celle come la mia, tutte vuote. Credevo di non essere il solo ad essere in prigione ma d’altronde la mia sordità non mi aiutava certamente. L’affare delle finestre mi interessò non più di tanto anche perché, pian piano, stavo raggiungendo la consapevolezza di trovarmi dentro ad un sogno, in fondo lo strano ticchettio che pulsava nel mio cervello non mi preoccupava più come in principio e lo stesso fatto che prendessi ogni cosa con leggerezza senza disperarmi mi convinceva ancora di più. Immerso in questi pensieri avevo perso completamente l’aggancio con la realtà, appena resomi conto di dovermi spingere ancora avanti mi diressi verso la grande porta che stava in fondo all’enorme stanza. Anche quella porta era aperta e senza difficoltà imboccai l’ingresso di un altro corridoio che sembrava terminare con una porta simile a quella che avevo incontrato alla fine del primo; si convalidava ancor di più la mia supposizione che si trattasse di un sogno o almeno la situazione assurda e il fatto che non mi fossi già abbandonato alla disperazione più nera mi fecero credere che stessi sognando. A quel punto decisi di non percorrere quel corridoio, mi sedetti e mi convinsi che dovevo uscire dal sogno, cercai di dormire. D’un tratto il corridoio cominciò a tremare, udivo distintamente dei colpi piuttosto forti e della gente che urlava delle canzoncine folcloristiche, una strana impressione mi colpì improvvisamente, una specie di deja vu: avevo già vissuto una situazione analoga ma non ricordavo quando… quando, che strano termine, cosa facevo prima di sognare, ricordavo solo che… ora cominciavo a ricordare: Ivana mi aveva lasciato, il mio unico e grande amore mi aveva abbandonato ed io avevo preso delle pillole, dei valium credo. Mio Dio, ero morto o forse… i colpi sulle mura diventavano più forti e delle crepe si aprivano sulle pareti. D’improvviso le crepe divenirono squarci dai quali filtrava la luce del sole e ben presto dalle buca che si erano formate entrarono degli uomini vestiti da guerrieri medievali. Molti di questi si sparpagliarono in tutte le direzioni, uno che pareva il capo si rivolse a me: -E’ tempo di sconfiggere l’amore Uomo, seguimi! – E dicendo questo si unì agli altri senza preoccuparsi se io avessi intenzione di seguirlo o meno, come se già sapesse che l’avrei fatto.

Voi occupatevi delle scorie io cercherò di scovare la base chimica – così dicendo, quell’uomo che prima aveva parlato con me si diresse da solo verso la porta che stava in fondo al corridoio e in un attimo la oltrepassò scomparendo dalla nostra vista. Gli altri si mossero in più direzioni, io preferii seguire il gruppo che si dirigeva verso le celle. D’improvviso alcune guardie irruppero di fronte a noi ma per gli uomini armati non fu un problema, al grido – Sterminate le scorie -, estratte le spade fecero a pezzi tutti quelli che si opponevano; stranamente non vidi alcuna guardia adoperare un’arma, tutti si opponevano alla lama delle spade con le sole mani o col proprio corpo. Nel giro di qualche minuto la battaglia si esaurì e restarono in terra solo le guardie o scorie, come le chiamavano. Ebbi qualche minuto per ragionare ancora, il ticchettio era scomparso, non ero più sordo, forse potevo comunicare con quella gente. Ne afferrai uno per il braccio e gli chiesi chi fosse e cosa stava succedendo, con mio grande sollievo l’uomo rispose: Noi siamo gli emissari della tua energia interiore, siamo qui per sconfiggere un grande nemico che stava divorandoti l’anima, siamo qui per sconfiggere l’amore. Improvvisamente mi ricordai del sogno che avevo fatto prima, o meglio del sogno precedente visto che ciò che stavo vivendo doveva per forza essere un sogno anche se con caratteristiche diverse da quelli tradizionali; era ancora una battaglia interiore quella che stavo combattendo ma questa volta si combatteva contro qualcosa di ben più importante di un oggetto, si combatteva contro… non riuscivo a definirlo ma sapevo che era tutto ciò che generava il rapporto con l’oggetto in questione, qualcosa che proveniva da dentro, qualcosa scritto nel mio DNA. Tuttavia non mi spiegavo la presenza di quegli uomini che dicevano di essere degli emissari, che senso aveva la mia presenza: ero completamente incapace di combattere, mi sentivo come incollato ad un ruolo, quello dell’osservatore. Forse ero io che combattevo dietro quegli uomini, o forse davvero qualcos’altro che combatteva per me! D’improvviso una luce fortissima investì tutto l’ambiente, tutti noi restammo annichiliti da quell’evento, poi sopraggiunse colui che mi pareva il capo: – E’ finita – esclamò con tono eroico. Poi rivolgendosi a me: – la base chimica è stata eliminata, adesso tocca a te fare in modo che non si riformuli in qualsiasi altro modo -.

– Base chimica… cosa intendi per base chimica – chiesi io

– Quando uscirai da questo sogno capirai, addio mio dio –

E così tutti quegli uomini scomparvero, ed io, circondato dal silenzio e da uno scenario che pareva quello di una piccola battaglia mi stesi in terra deciso a riposare; non so perché lo feci, ero stanco e desideravo riposare.

Non so dopo quanto tempo riaprii gli occhi, attorno a me c’erano persone che applaudivano, scorsi Salvo, Claudio, Cristina e Daniela, in un angolo dietro notai persino Ivana. In un attimo mi resi conto di essere in ospedale, un medico mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio – Per questa volta è andata bene ma cerca di non rifarlo stupidone -. Sorrisi, capii che non era stato altro che un sogno reso così particolare dal fatto che stavo per morire. I miei amici mi si avvicinarono, Daniela e Cristina furono le prime ad abbracciarmi, Daniela cominciò a piangere e a dire frasi del tipo -sei un cretino, ci hai fatto preoccupare-, Cristina si limitò a sorridermi. Poi tutti gli altri ed infine Ivana… incredibile ma non provavo alcun sentimento quando si avvicinò al letto in lacrime, né ricambiai il suo abbraccio con la stessa intensità che operai con gli altri.

– Mi dispiace -, cominciò lei, intorno si era già fatto silenzio – so che lo hai fatto per colpa mia, ti voglio bene e vorrei tornare con te –

Io esplosi in una fragorosa risata in apparenza isterica, poi ancora fra le lacrime le dissi: – Non è necessario che tu faccia la martire Ivana, adesso sono qui per colpa di qualcos’altro non certo perché tu mi hai lasciato… non hai la minima idea di quanti alleati ho scovato dentro me come non immagini neppure quanto sia cambiato adesso -. Improvvisamente capivo il significato delle parole del soldato, improvvisamente concepivo la grande metafora che nascondeva il mio sogno. Avevo sconfitto l’amore, forse sarebbe durato poco ma sapevo che non sarei mai stato solo di fronte ai problemi, sapevo che dentro me si nascondeva un’energia capace di operare delle trasformazioni dentro me di portata rivoluzionaria, sapevo che non mi sarei più piegato alle sconfitte, sapevo che non avrei più permesso a SuperAmore di impadronirsi di me.

– Sono Libero -, gridai di fronte a tutti – Sono Libero come il vento!!! -.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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