Sembra banale ma ognuno di noi dovrebbe imparare a fermarsi ogni tanto e dedicare qualche ora all’esercizio del pensiero. Con questo non voglio dire che durante il giorno siamo automi che eseguono comandi pre-impostati, il tipo di pensiero di cui parlo è di altra natura, il momento in cui ti trovi da solo con te stesso, senza musica intorno, magari al buio, e cominci a fare un elenco delle cose che ti appartengono, di quelle che non hai e di quelle che vorresti avere. Chiaramente non si parla di “cose” materiali, chiamiamoli pure valori, atteggiamenti mentali, superstizioni… insomma, come vi pare, la cosa importante è capire se queste “cose” stanno ancora al loro posto o se sono mutate col tempo perchè, vedete, anche se a volte non ne siamo coscienti, sono proprio questi “valori” che determinano il modo in cui giudichiamo il mondo e le persone al di fuori da noi, e di conseguenza la capacità di stare bene con gli altri, che siano gli amici, i familiari o il compagno. Se dovessi cercare una metafora tecnologica che descrivi l’atteggiamento mentale di cui parlo potrei parlare di un processo di auto-diagnostica che risolvi modi e cause del nodo che ci stringe alla gola e che spesso crediamo dipenda solo dallo stress.
Oggi ho fatto questo esercizio, più per ragioni di forza maggiore che per una disinteressata ricerca nelle mie profondità. Sapete, è già difficile barcamenarsi in questo momento di crisi, se a questo ci aggiungi le piccole guerre dei poveri (e cioè quello che sta come te che cerca di fotterti lo stesso), allora si rischia davvero di mandare tutto a quel paese e trasferirsi in realtà sociali meno aggressive.
I fatti concreti sono più di uno: prima mi fregano la bici con cui ho fatto Santiago, poi mi chiedono soldi in anticipo per qualcosa che non vedrò più, alcuni mi fanno lavorare una settimana per poi dirmi che il progetto è rimandato (fuggi sciocco anzichè chiedere l’acconto), alla fiera lo stesso tizio riesce a vendermi per tre volte di seguito due chili di limoni che meglio non ce n’è, poi arrivo a casa e sono duri come le pietre… per non parlare del chilo di formaggio insapore, del melone avariato e dei vari giochi di “prestidigitazione” che i poveri fanno ai poveri più ingenui per soffiargli via del denaro… insomma, katz, ci sono momenti nella vita in cui uno vorrebbe andare a comprare qualcosa o semplicemente fare il giusto lavoro per qualcuno senza preoccuparsi che ci sia malafede o inganno… e invece no, sembra quasi che oramai ti costringano a contare sempre il resto, anche quando hai davanti la faccia più pulita del mondo.
Ecco, terminata la premessa vi confido che oramai sto cominciando a pensare che il prossimo stia sviluppando una naturale tendenza a fottere anche suo fratello. Sdraiato sul mio letto con intorno il rumore della centrale nucleare che stanno costruendo dietro la parete, ho pensato a come è cambiato il modo in cui vedo gli altri, a quello che istintivamente mi aspetto dal prossimo e come al contrario non sia cambiata la reazione ad un conflitto.
L’analisi è stata determinante ed il risultato sconcertante: seppure mi aspetti la fregatura dietro ogni angolo, mi ostino a dare fiducia, a credere che ci sia sempre l’eccezione. Poi arriva la fregatura e che faccio? La subisco, reprimo la rabbia, qualche volta mi faccio qualche film in testa ma in realtà lascio che l’insulto decada nella memoria accontentandomi di una fantasiosa immagine di riscossa.
Io credo che alcuni di noi abbiano serie difficoltà a liberarsi degli “imprinting” subiti durante la crescita. Ecco, mi sento di appartenere a questa categoria. Se hai vissuto in contesti sani, protetto a dovere da genitori premurosi, circondato da amici onesti e sinceri, è difficile tutto ad un tratto credere che il resto sia merda. Impari ad aspettarti quello che hai sempre ricevuto (anche quando in realtà non ti succede più di ricevere qualcosa da molto tempo) e se non accade pensi che accadrà la prossima volta, è un gioco mentale con il quale ti ripari dalla delusione di dover ammettere che hai vissuto dentro una campana di vetro, che non hai la voglia di arrabbiarti per paura che al posto di un urlo venga fuori un gridolino isterico (che proprio non sei abituato a gridare in faccia ad altri). E poi, da bravo ragazzo, cosa penserebbero gli altri se ti vedessero perdere il controllo in strada… saresti sotto gli occhi di tutti: guarda quel disgraziato, forse le cose non gli vanno molto bene. Ecco, questo è quello che io penso quando vedo qualcuno che “sdilliria” (si arrabbia) per strada: se non ha la capacità di controllarsi significa che è debole, se è debole significa che ha molti problemi, di conseguenza è uno sfigato.
Qualcuno ha detto che il mio “imprinting” ha solide radici nella English Way: soffocare le emozioni, mantenere il contegno, vivere in silenzio anche la più estrema disperazione, e tutto questo al solo scopo di non aprirsi ad un estraneo, per così lasciare che l’intero proprio mondo emotivo resti invisibile agli occhi altrui.
In questo senso mi sta servendo scrivere l’analisi critica a The Wall dei Pink Floyd, in fondo è sempre di relazioni che parliamo, è sempre il solito muro che ci costruiamo intorno dove l’idea è quella di conservare e proteggere le nostre cose… ma nel mio caso pare che ultimamente stiano entrando tutti dalla porta di servizio per rubarmi qualcosa mentre dormo.
A questo proposito vivere l’infanzia, l’adolescenza e buona parte dell’età adulta in una piccola città (o paese che sia), è determinante nella costruzione dell’identità caratteriale. In una città come Ragusa difficilmente crescerai identificandoti con un numero allo sportello di turno: anche quando chiamano il 56, tu dal fondo della fila dirai – sono io, Floyd Pinkerton -.
Un’altra cosa buona della vita nel paesello è che puoi vedere gli amici tutti i giorni, non ci sono grandi distanze, il parcheggio si trova sempre, e nella semplicità di un ambiente familiare dove ogni volto porta un pezzo di te bambino nella memoria, è difficile sentirsi soli, quasi impossibile uscire di casa senza un sorriso, perchè in fondo la vita ti sembrerà sempre una bella esperienza, anche quando passerai gli ultimi giorni che ti restano a fare giri turistici della città negli autobus urbani.
Purtroppo alle cose positive c’è sempre un contraltare. Il più gravoso è l’ignoranza della “vera realtà” con la conseguenza che un battesimo sociale alla fonte di una grande città può causare un’implosione devastante ed improvvisa. A partire dalle biciclette rubate sotto casa, e seguitare con la macchina presa a calci in un parcheggio senza alcun motivo, e poi la discussione con il parcheggiatore che vuole che paghi anche se non ci sono strisce blu, e continuare col poliziotto che ti scambia per un tossico e ti accompagna a spintoni in questura, e poi la gente che ti fa fare i siti e che al momento di pagare scompare, la scheda madre del tuo computer che non torna più dal reso in garanzia, gli amici (quelli finti però) che non fanno niente quando subisci un’ingiustizia, il tizio che giura di essere ragusano e che odia la disonestà e se ne va coi tuoi 20€ per un nuovo telecomando e torna solo dopo la minaccia che parlerai col suo capo, per finire con quello che ti conta davanti i soldi per una chitarra e che quando li riconti tu ti accorgi che mancano 100€, e ti accusa di aver fatto qualche manovra magica per intascarli… credo sia sufficiente. Veronica da parte sua sostiene: sveglia ragazzino, è tempo di crescere. Ed io mi incazzo, perchè se così fosse non c’è più tempo, ho già superato quell’età e cambiare senza interferire pesantemente con altre strutture mentali è davvero difficile.
Se cresci pensando che comportandoti bene il karma ti premierà, ogni qualvolta succede qualcosa di negativo, allora significa che hai fatto male. Se non è così devi riconoscere che il karma non esiste, e se il karma non esiste allora non esiste alcuna realtà che vada oltre ciò che vedi e che la spiritualità è solo la consolazione degli sfigati: magra ricompensa di una vita in cui non bisogna fidarsi del prossimo. E queste sono solo alcune delle ripercussioni. Pian piano cade il significato profondo degli affetti, la fiducia in un futuro accompagnato con un’altra persona, la speranza di realizzare i propri sogni motivata dalla perseveranza… insomma, la realtà diventa arida e fredda, il mondo un posto triste, gli uomini servi di un solo bisogno: il proprio tornaconto.
Probabilmente l’istinto di autoconservazione è ciò che rende ogni uomo quello che è. Tuttavia nel tempo, e soprattutto in società come la nostra dove sembra contare l’avere piuttosto che l’essere, ogni principio etico sembra sia stato accantonato. Secondo la mia esperienza nel paesello, un amico era tale se riusciva a cogliere i tuoi più intimi bisogni. Se l’amicizia è reciproca, è chiaro che si impari ad aiutarsi a vicenda, ed ogni volta che ricevi, sei più motivato nel dare. In tal modo si asseconda il proprio istinto di autoconservazione utilizzando una componente etica che trova le sue radici nel significato stesso dell’amicizia e cioè: prendersi cura di chi ti sta a cuore. Così un imprenditore. Nel momento in cui mette i suoi operai in condizione di stare bene, senza iper-sfruttarli, con il giusto stipendio, probabilmente avrà in cambio rispetto ed onestà, anzichè essere visto come lo schiavista di turno cui concedere il minimo indispensabile per non essere licenziati.
Qualche tempo fa un amico mi ha detto che la completa decadenza dell’etica in ambito industriale è stata determinata dalla fine del comunismo. In effetti, quando il muro che divideva le due Berlino era ancora in salute, lo spettro del comunismo vero sussurrava alle orecchie degli imprenditori: attenti a non fare gli schiavisti che se il popolo si ribella vi toglie tutto. Ed allora, per paura, gli imprenditori cercavano di mantenere una parvenza di decenza nei contratti, e così i sindacati oggi servi della politica. Sapete?! Mica mi è sembrata tanto strampalata questa possibilità?!
Ma pensiamoci? Il mondo non andrebbe forse meglio se ognuno di noi avesse più riguardo per il suo prossimo?
..caro caro Nicola..