Il grande fardello

13 Novembre 2003
14 minuti di lettura

di franc’O’brain

"La nostra salvezza è la morte. Ma non questa."

(Franz Kafka)

Quella mattina Bert si svegliò pieno di aceto. Accese il computer, aprì Word e scrisse in cima alla pagina:

CAPITOLO I

Poi esplose in un riso giallastro. "Ma che combino?"

Già. Che combinava? Parliamoci chiaro: voleva forse mettere ordine al caos delle sue memorie? Imbrigliare le sensazioni e gli avvenimenti che, come una giungla di fogli inchiostrati, ingombravano i cassetti della sua (pur momentanea) container-abitazione? Costringere in forme geometriche l’irreparabile disordine della sua esistenza, reso ancora più irreparabile dalla convivenza con persone che per lui rimanevano degli illustri estranei?

Fissò la scritta che galleggiava simile a un ologramma e mormorò: Fottiti. Cancellò e scrisse invece:

G0

Non nel senso di "go" ma di ‘G’ che stava per Gina, seguita da uno zero.

Era a lei che pensava ed era di lei che voleva scrivere. Dopo tutti questi anni… Strano che l’idea gli fosse venuta in quella celletta, sotto una telecamera che seguiva ogni sua azione, anche la più banale, senza concedergli mai respiro. Comunque fosse, l’idea del libro era presente e bisognava svilupparla. "G0". Uhm. Ovviamente si sarebbe ben guardato dal denominare gli altri capitoli G1, G2, G3 ecc., secondo la logica di uno scrittore qualsiasi. Bert era diverso. Era un portavoce del cyberpunk, lui. Tra l’altro detestava l’aritmetica. I capitoli successivi li avrebbe chiamati, con ogni probabilità, GX, GY, GK… Oppure avrebbe scelto denominazioni persino più astratte. Ad ogni modo, era ora che dedicasse a Gina un libro intero. Fino a quel giorno, su di lei non aveva vergato una sola riga; anzi: aveva sempre badato a rintuzzarne il ricordo… il ricordo di quei momenti, anni prima…

Si sentì pervadere da un senso di tristezza, pentimento, repulsione o cos’altro fosse. Ma non sempre si può tenere gli occhi chiusi davanti alla realtà, pur se è una realtà vecchia di secoli, millenni, eoni e seppellita sotto tonnellate di cianfrusaglie che la gente si ostina a chiamare «vita». Figurarsi! Chiamavano «vita» pure quello stupido programma televisivo…

Gina.

Repulsione? Come mai allora si sentiva arrapare?

Nel container regnava un silenzio insolito. Chissà dov’erano andati a cacciarsi tutti quanti! Erano già andati a cuccia? Anche la cittadina, che si estendeva oltre l’ondulata parete di alluminio, sembrava immersa nel sonno. Kyllburg: ventimila anime. Anime morte. "Vita?" Ma che ne sapevano? Non sapevano un Katz! Ognuno dentro al proprio container a guardarsi l’ombelico oppure a guardare lui che si guardava l’ombelico.

Non si era ancora vestito, né manifestava l’intenzione di farlo. Quando suonarono alla porta, non aveva ancora scritto una sola parola; se n’era rimasto per tutto il tempo seminudo, a osservare il monitor biancheggiante in preda a un’indicibile malinconia.

L’occhio della telecamera sempre appiccicato sul groppone.

Il campanello trillò una seconda volta.

Uff! Con pesantezza si staccò dal seggiolino e abbaiò al citofono: «Sì?»

Niente. O, meglio, ronzio, che è peggio di niente. "Chi diavolo…?" Un rappresentante? Il portalettere? I soliti ragazzini rompiballe? "Sveglia, Bert, sveglia!" si ammonì. "Non sei a casa tua, ma dentro una scatola illuminata a giorno da questi fottuti spots. E non è certo da oggi che ti trovi qui: saranno ormai tre settimane…"

Dunque? Chi poteva essere? Probabilmente un ospite d’onore. "Vaffan’, Max!" indirizzò mentalmente al regista. «Sì, chi è?» domandò più forte, virile come Robert Mitchum. (Sapeva che al pubblico sarebbe piaciuto.) Di nuovo gli rispose l’indifferenza degli elettroni. Allora tirò la porta a sé e… Ristette.

Davanti a lui una bionda falso-magra. La più splendida figa d’America, d’Eurasia, del mondo intero. Non un volto noto; Bert, almeno, quella bambola non la conosceva ancora. Mai veduta sul piccolo schermo, né si ricordava di essersi imbattuto nel suo bel musetto in nessuno dei rotocalchi con cui rifornivano lui e gli altri partecipanti a Big Brother. Quasi quasi si vergognò: si sentiva sporco e odioso, e d’istinto ritrasse la pancia. Ma i calzini erano puliti, le mutande immacolate; illibate, addirittura. I telespettatori potevano stare tranquilli.

«Desidera?» fece, mezzo inebetito.

«Sono il tuo regalo», esordì la sconosciuta.

«Mi rallegro. Ma che regalo?» chiese Bert, rimanendo impalato.

«Il regalo da parte di alcuni tuoi amici», spiegò l’apparizione. E già scivolava all’interno, conturbandolo tutto nello sfiorargli il fianco.

La seguì con occhi allucinati mentre lei si sfilava i guanti di pelle (che classe!) e, dopo i guanti, il soprabito. Sotto era completamente nuda! Formosa al punto giusto. Aveva dita ben curate e – notò – unghie lunghissime, laccate di rosso.

La ragazza si volse a guardarlo con lascivia; quindi gli si avvicinò e gli pose le mani sulle spalle. «Auguri», gli soffiò sul volto.

Bert si sentì di colpo ebbro e, inutile dirlo, eccitatissimo. L’alito della sconosciuta aveva una fragranza non consueta: un profumo di fiori delicati; tulipani, crisantemi.

Rise imbarazzato, sbirciando la telecamera. Erano giorni, forse settimane che non si radeva. Aveva le occhiaie, i capelli arruffati… In breve, era conscio di non presentare un aspetto decente. (Che i telespettatori crepassero pure! Chissenefrega se loro storcono la bocca?) Eppure, la pornodiva continuava a strusciarglisi addosso, come nelle fantasticherie notturne di un adolescente. E, strusciandosi, prese a canticchiargli nell’orecchio: «Happy birthday to you. Happy birthday to you. Happy birthday, Mister Bert…» Bei capezzoli, pensò Bert; rosei e turgidi…

«Auguri, dice?» sbuffò una zaffata sulfurea. «Auguri di che? Io non ci ho mica il complean… Scusi, ma è uno scherzo? Chi la manda?»

«Sono un regalo», ribadì lei. Il sorriso le formava due fossette sulle guance, quasi due nei di passione. «Un regalo… per te

«Max. È un’idea sua, sì?» Bert guardò furbescamente – o almeno così gli parve – in direzione della telecamera. Il regista di Big Brother era un vero figlio di.

«Max chi?» sillabò la Venere bionda. «Non conosco nessun Max.»

L’accento ne tradiva l’ascendenza mitteleuropea. “Cèca“ opinò lui. “O piuttosto tedesca. Come Gina…“

Fu colto da un ottundimento paralizzante. Come mai pensava di continuo a Gina? Non doveva, non doveva… Ma nel frattempo la languida Fata Morgana (sicuramente una "starlette" in cerca di pubblicità) lo sospingeva verso il letto.

«Bill», insisté Bert, sovvenendosi del suo agente editoriale. «William. È stato lui?» A dire il vero, gli pareva strano che quel bastardo potesse essere divenuto improvvisamente tanto munifico da spedirgli un "regalo" di tale portata. In una trasmissione live, poi… Ma chi altro poteva essere stato?

«William? Non conosco neppure lui», flautò la bellezza nordeuropea. Le sue tette sfioravano il petto di Bert.

Bert continuò a indietreggiare, per poi lasciarsi cadere come al rallentatore fino a toccare con la schiena il giaciglio (lenzuola girovoltate, materasso pulcioso), dicendosi: "È un sogno. Sto semplicemente allucinando". Ma la spia rossa della telecamera rimaneva accesa a dimostrargli il contrario.

«Lascia fare a me», mormorò il Sogno; e gli depose un bacio sulla fronte.

Possibilmente è la Gloria, proseggiò Bert, immerso in una cascata di capelli d’oro. E poi Gloria, o come altro si chiamava, gli strisciò sul bassoventre, e più giù.

«Ehi!» protestò, chissà perché, lui. Chiuse gli occhi però, arrendevole. Il profumo emanato da quella ragazza… come mai lo riportava indietro nel tempo? Ovvio, lo sapeva: era il profumo di Gina. Identico. Un sentore di Foresta Nera; muschio, pino silvestre.

Gina.

Risaliva a dieci… no, dodici anni prima. A quell’epoca Big Brother ancora non c’era (non in forma televisiva, almeno), ma il mondo già sbandava paurosamente. Lui, Bert, un ventitreenne sbilenco; Gina di anni ne aveva undici. Un fiorellino in boccio. Figlia di crucchi venuti negli States in cerca di fortuna. I genitori spesso assenti per lavoro, lei tutta sola nell’appartamento. Giorno dopo giorno. Oh sì, era da un pezzo che Bert spiava quella bambolina… La spiava da dietro i vetri mentre lei scarpinava in direzione scuola: gli faceva sangue la maniera in cui si muoveva, quei suoi (quanto innocenti?) ancheggiamenti… Bert aveva scarsa fortuna con le ragazze, con il lavoro, con il resto. Uno schifo. Perciò si era messo a imbastire fantasie sulla pupetta tedesca (gonnellina scozzese, coda di cavallo: un’educanda!). Unico lume nel grigiore di Kyllburg. A volte si erano incontrati sulle scale (Bert aveva fatto in modo che gli incontri avvenissero di frequente) e là, giganteggiando su Gina, la fissava con un ghigno balordo. E lei? Lei, Gina (Eugenie), abbassava le sue splendide ciglia e -ci credereste? -arrossiva. Da prenderla a morsi, proprio! Poi era arrivata l’estate e la piccola gli aveva fatto tanta pena, quasi tenerezza: tutte le altre fuori a giocare, a mostrare le gambe (oh, stagione benedetta!), a correre dietro i bulletti della loro età, e lei sempre in clausura. Era timida, poverina…

In quell’istante la bionda gli sfilò le mutande e: «Oh!» esclamò, palesemente compiaciuta. Prese a strofinare, fregare, strofinare. ("Guardate pure. Guardate e rodetevi d’invidia" rise Bert tra sé e sé.) Ma, dopo appena un minuto, si staccò da lui. Bert sollevò la testa, contrito, e la vide andare verso il soprabito con cui era arrivata. I fianchi agili, le natiche come Dio comanda. "Un sogno" si ripeté. Un sogno? Come mai allora la telecamera continuava a riprendere il tutto? Riprendeva quella che per lui era una visione onirica, certo il frutto di un’ibridazione che affondava le sue radici nei pomeriggi solinghi della gioventù, quando aveva praticato con accanimento il culto di Onan. "Quante energie sprecate!" si era rimproverato a posteriori. Ma qual era l’alternativa? Morire di acne irreversibile?

La Valchiria incontrò il suo sguardo e tornò a sorridergli. Aveva estratto da una tasca del soprabito alcune strisce di stoffa di notevole lunghezza.

«Cosa…?» cominciò Bert, sorpreso.

Fu zittito da un perentorio «Ssst», accompagnato da un’espressione che sembrava significare: «Buono, cattivello!»

Quel sorriso… quelle labbra sensuali… Era reale, iperautentica! Anche lui sorrise, dicendosi: "Vaffan’, Max!". Logico: Max & Co. volevano far salire gli indici di gradimento, e quale rimedio era migliore del sesso sadomaso?

La giornata aveva avuto un brutto inizio, proprio shitty, come sempre accadeva dentro quel container del Katz; ma ora prometteva bene. Più che bene.

Bert si lasciò legare i polsi e le caviglie. I nodi erano talmente stretti da farlo gemere di dolore: non c’è che dire, la biondona sapeva il fatto suo. Si ritrovò immobilizzato. A quel punto, un’altra avrebbe ripreso il gioco interrotto poco prima. Ma non lei. Oh no, non lei. Lei sedette sulla sponda del letto e rimase a fissarlo con un’aria da Monna Lisa regina delle puttane. Bert credette di intuire la motivazione psicologica di quello star lì senza far nulla: apposta la bionda prolungava l’attesa; intelligentemente lo lasciava a tormentarsi, tutto teso nello spasimo dell’eccitazione. Così ingigantiva anche la tensione dei telespettatori. "Brava!" la lodò internamente. Per lui, la situazione equivaleva a un trip totale. "Vediamo dove arriva" si disse. E ad un tratto la bionda, senza smettere di sorridere, gli mollò un manrovescio.

«Porc…! Non così, bellezza. Mi fai male.»

«Non così?» Lei si era alzata e, tramite un elastico che le era apparso tra le mani come per magia, si legò i capelli sulla nuca. «Non così, dici?»

E giù un’altra sberla. Alcune gocce di sangue sprizzarono dalla bocca di Bert.

«Ho capito, ho capito», guaì, mentre un rivoletto color cremisi gli scorreva lungo il mento. Pensò: "È matta questa qua?"

«Che sapore ha il sangue?»

«Eh?»

«Buono?»

«…»

«Migliore di quello di…?»

«Di chi?»

«Che cosa hai fatto alla piccola Gina?»

Ebbe un brivido, impallidì, gli si fermò il cuore, si sbavò addosso, gli si rizzò il pelo, gli vennero le lacrime: tutto in una volta. E non era sangue agrodolce la sostanza che sciabordava contro il suo palato, ma mucopus; amaro come fiele.

La sconosciuta -coda di cavallo, e ora anche un ridotto gonnellino a scacchi – lo colpì una terza volta. Questa volta le unghie gli scavarono dei solchi sulla guancia.

Bert emise un grido. O, piuttosto, un mugolio sconclusionato. Qualcosa come: «Macazz prch diavl?»

Accidenti, però! Ne aveva abbastanza. Altro che "utile e piacevole avventura televisiva"! Altro che "grande fama e la possibilità di un contratto con un editore, forse anche con Hollywood", come gli aveva ventilato quella sanguisuga di Bill. D’un tratto si sentiva flaccido, svuotato dentro e fuori. Eppoi, cos’aveva detto la troia? Aveva detto «Gina»? Non era possibile… «Slegami», le intimò, ritrovando di colpo la parola. «Mi sono stancato di questo giochetto da motel squallido; anzi: da albergo a due stelle cadenti. Ma per chi mi prendi?» E guardò con truce sospetto l’occhio vitreo della telecamera.

Sul volto della bionda passò un’ombra di tristezza. «Non hai registrato niente», constatò, riportandosi le mani alla nuca. «Ancora non hai capito qual è la vera natura di questo programma…» Quindi cominciò a tirare, proprio sotto il nodo dei capelli.

«Un programma di merda!» sbottò Bert, consapevolmente segnando la fine di una breve carriera da star. «Ehi!» gridò poi, rivolto ai cubicoli adiacenti. «Siete sordi? Venite a liberarmi, una buona volta!» Non gli giunse risposta. «Ma mi hanno lasciato da solo?»

La strega proseguiva ad armeggiare all’altezza della propria nuca. Intanto diceva: «Un pomeriggio di dodici anni fa, ricordi? In casa della… tedeschina».

Lui stava per vomitarle addosso una sfilza di improperi, ma fu sopraffatto dal terrore nell’udire un rumore come di gomma e, soprattutto, nel vedere come la faccia di lei si accartocciava mentre le mani tiravano, tiravano…

«Hai bussato alla sua porta. E la piccola Eugenie, che era segretamente innamorata di te, ti aprì.»

Adesso l’intera fisionomia della bionda era sformata. Bert strattonò i legacci, che però si rivelarono molto saldi. Strattonò con più forza: niente da fare, reggevano benissimo. Tornò a immobilizzarsi, osservando gli artigli della sconosciuta che spingevano la maschera, o cos’altro era, oltre le orecchie e più oltre. «Hai approfittato della sua ingenuità, e passi: dicono che succede. Ma almeno avresti potuto iniziarla all’amore con un po’ di tatto, di dolcezza. Invece no. Invece hai voluto farle del male. Hai voluto romperla. L’hai seviziata per ore… E ti arrabbiavi pure, perché piangeva! Le dicevi di stare zitta, zitta…»

«Zitta, zitta!» urlò Bert, fissando, inorridito, il graduale smembramento del viso della Valchiria. Altro che Valchiria! Una mummia. Nikotris, la figlia defunta del faraone. I polmoni gli si sgonfiarono come un palloncino mentre la pelle di lei scivolava giù insieme alla cascata di capelli, mettendo a nudo un cranio poliposo e cromato.

«La piccola Eugenie… Gina… si disperava, si ribellava. Si ribellava al male, non all’amore. E tu, ometto ridicolo, non capivi o fingevi di non capire. Undici anni aveva! Zitta, le dicevi. E hai incominciato a stringerle il collo.»

Bert cercò di buttarla a ridere. «Ahahah», fece, rivolto alla telecamera. «Me l’avete fatta. Ottima gag. Okay, mi arrendo.» Era una scena studiata a tavolino: nessun dubbio su ciò. Tuttavia, non capiva come mai erano venuti a capo del suo segreto. Il suo segreto più nero. My God, e l’avevano spiattellato ai milioni di idioti là fuori…!

Immerso in un sudore algido, roteò gli occhi. Che succedeva? Forse verità e finzione avevano finito col mescolarsi nel suo cervello stanco? O verità e finzione erano divenute realmente un tutt’uno, infine, proprio grazie a trasmissioni come quella?

In un lampo ripensò a certe news e a certi trafiletti di giornali in cui si parlava di riti satanici, di maleficium, di pratiche innominabili… Quelle notizie non gli avevano mai fatto né caldo né freddo. Si era detto: "Siamo tutti angeli e diavoli. Angeli e diavoli nel carnevale permanente." Ora, però…

Il rivestimento epiteliale della creatura penzolava come un orologio fuso di Dalì. Lei terminò di sfilarselo e gli si riappressò, traslucida e umidiccia. Cominciò a stringergli la gola. Bert, tremante come una foglia, acquisì la certezza definitiva: si trovava al cospetto dello scheletro con falce che aveva visto da bambino in un’Apocalissecorredata da illustrazioni. "È finita" risolse, mentre un liquido giallastro gli bagnava le cosce. "Capitolo Fine. E il tutto on air… il tutto live, per la gioia di grandi e piccini." Inopinatamente, gli artigli ricurvi dell’orripilente apparizione allentarono la stretta e la voce (che ora sapeva di sotterraneo, ricca com’era di echi tenebrosi) riprese la narrazione, cosa che equivalse a rigirare il coltello nella piaga.

«Ad un tratto ti sei detto: perché farla semplice? Se bisogna ammazzarla, meglio divertirsi fino in fondo. Gina è un giocattolino nelle mie grinfie, ti sei detto. Le metto le mani negli occhi. Com’è? Com’è? Acquoso. Nessun ribrezzo. Quasi come rompere un uovo.» E le unghie affondarono nei bulbi oculari di Bert. «Ti sei detto: Un po’ di più… Premo un po’… di più.»

Con raccapriccio -il collo inverosimilmente piegato all’indietro -, Bert prese nota un’ultima volta del biancore accecante dei fari sul soffitto, prima che i suoi occhi esplodessero con un simpatico blop!

«Uaaahiahhhaaaaah!»

«Sì: così urlò la piccola e dolce Gina», proseguì lo scheletro, il mutante, la viaggiatrice astrale. Era lei la nuova diva dello show: un essere millenario trasudante feromini e avvolto in un sudario di venuzze e nervi palpitanti. «Poi le si arrestò il cuore. Smise di battere, semplicemente. Ma vedo che non è il tuo caso. Bisogna far qualcosa…»

Bert avvertì sul petto la pressione di quelle dita spietate, i cui polpastrelli avevano una consistenza lumacosa. Gli artigli premettero proprio là dove lui sapeva esserci il…

Emise un urlo convulso, come di pazzo o di sordomuto. «Maaax!» invocò. Ma quel regista del cacchio continuava a rimanere aggrappato al suo pulto dentro la stanza dei bottoni. Bert boccheggiò. Un terrore esangue gli insabbiava le ossa. E allora, in un’inedita sequenza filmica, davanti ai suoi occhi martoriati sfilarono colonne di fanciulle e putti, tutti con il dito puntato su di lui o, meglio, sulla sua verga granitica – il monolito, Ein-Stein; Stonehenge; lo scettro nero; la bestia indomabile…

Fino alla vigilia del suo debutto televisivo, aveva dato la caccia ai bambini: aggirandosi al crepuscolo, ombra di se stesso, spirito e corpo guidati da un unico istinto; anzi, neanche spirito, ma una presenza fuggevole che i bravi cittadini non potevano vedere. Gli angioletti invece sembravano addirittura attendere il suo avvento: in ogni cortile e in ogni sottoscala, all’entrata dei MacDonald’s, ai piedi degli alberi del parco… In loro, Bert aveva cercato quell’ormai remota prima emozione violenta: invano. Li aveva aperti e frugati in un’incontrollabile furia ninfolettica e poi rispediti a casa: sulle loro gambe, non dentro a cofani funerari. Tanto era inutile: Gina rimaneva la migliore del branco, l’indiscussa capoclasse, l’unico e inimitabile "dolce Nephentus" – bevanda dell’oblio. Per lui, l’attività diurna (scrittore; o, come si dice oggi, "words operator") serviva a rimandare il suicidio, nella stessa maniera in cui la sua autoreclusione in quel gattile doveva fungere da terapia d’urto. Ma non c’erano prigioni o cure che potessero soccorrerlo, ormai. Sapeva di essere perduto, irrimediabilmente condannato.

Tuttavia, ecco che si sorprendeva a invocare aiuto. Anche se la sua colpa era stata sbandierata ai quattro venti, e anche se l’apparizione lo aveva privato del bene della vista, sentiva sotto sotto che non era ancora giunto il momento di gettare la spugna. Là fuori, forse, molti comprendevano il suo dramma ed erano solidali con lui… Forse gli avrebbero concesso il condono… Ma urlava in quel modo anche perché sperava che i suoi avversari/compagni di gioco finora si fossero tenuti nascosti e che finalmente si decidessero ad accorrere per salvarlo (sempre che quel bastardo di Max non avesse deciso, a sua insaputa, di dedicare la puntata interamente a lui), o che qualcuno dei tecnici, pietoso, interrompesse la fin troppo lugubre rappresentazione. Ma figurarsi: Big Brother era il pianeta degli svuotati. Nessuno interveniva, e anche i cittadini che abitavano nei dintorni non davano segni di sé. Nessuno udiva un bel niente, nessuno usciva di casa. Trogloditi! Stavano piantati davanti al telecretinium in un sonno ipnotico a sollazzarsi con i suoi inauditi tormenti…

L’ urlo di Bert si trasformò in un gorgoglio stupefatto quando il muscolo cardiaco fu strappato dal suo alveolo.

Craaak!

Mentre la pellicola si spezzava e un applauso fragoroso scoppiava su ogni parte del globo terracqueo, avvertì il crollo definitivo del suo corpo, lo sgretolamento totale della sua baracca fisica, rotta e contusa da decenni di abitudini dissolute. E pensare che si era illuso di poter frenare il degradamento proprio facendosi rinchiudere dentro quella scatola di latta!…

«G… gin…aaah», mugugnò nell’istante supremo di dolore e amore infinito, prima di tracciare sulla lurida pagina della sua vita, con la tinta dell’orrore:

FINIS

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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