Il buco nell’io-zona

6 Maggio 2019
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10 minuti di lettura

Per tutti gli esseri viventi, la vita è quella luce che si accende nel momento in cui nasci e si spegne quando muori.

Dal momento in cui quella luce si accende ci vengono insegnate delle cose. Ci vengono raccontate storie sul mondo dal quale proveniamo, che non è solo la pancia della mamma ma un universo staccato dal nostro dove vivono tutti coloro la cui luce si è spenta. Ci viene anche raccontato a grandi linee su cosa aspettarci dalla nostra vita e cosa dobbiamo fare per realizzare ciò che è “normale” per tutti.

Quando siamo bambini, il nostro mondo è fatto di giochi e desiderio di autonomia. Non vediamo l’ora di crescere in modo che gli altri non debbano dirci cosa fare. Ogni volta che scopriamo qualcosa di bello, il cuore si infiamma e la mente non pensa ad altro, fino a quando l’interesse non scema e la passione si sposta su altro.

Alcuni bambini hanno la fortuna di scoprire una passione che li accompagna per tutta la vita, un mondo di emozioni forti che non smette mai di esaurirsi. Altri devono accontentarsi di saltare da un gioco all’altro per non annoiarsi.

Io non ricordo più che tipo di bambino sono stato. Ho solo memoria dell’entusiasmo che provavo quando mia madre prendeva carta e colori, li posava sul grande tavolo di legno della cucina e su quello stesso tavolo nascevano improbabili forme colorate. Ricordo la trepidante attesa dello spettacolo dei burattini allestito in salotto e messo in scena ogni fine settimana e di come mi scordassi che si trattava di marionette: ogni storia diventava vera ed i personaggi vividi, era come essere lì e dimenticare la realtà. Poi c’erano le sedute dal parrucchiere: mia madre indossava il casco per la permanente e dovevo stare un tempo lunghissimo ad aspettare che la sua chioma si gonfiasse. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, di quei momenti ho ricordi fantastici (nel vero senso della parola) perché sapevo che, ad ogni seduta, mi avrebbe raccontato una nuova storia dell’Odissea: l’inganno di Ulisse/Nessuno ai danni di Polifemo, i marinai trasformati in porci dalla maga Circe, le sirene ed il modo in cui Ulisse non si fece ammaliare dal loro canto. Conoscevo tutte quelle storie come un professore del liceo perché mia madre me le raccontava a puntate, come in una moderna serie tv, ed ogni seduta dal parrucchiere si trasformava in un nuovo episodio che non vedevo l’ora di “vivere”.

L’idea che mi sono fatto da bambino della vita era che ci fossero così tante cose belle da scoprire che non avrei certo avuto il tempo di annoiarmi. Era tutto lì, nei libri della biblioteca, storie di vita vera o inventata nelle quali avrei potuto viaggiare per decenni, un po’ come il bambino della Storia Infinita.

Poi è arrivata l’adolescenza e di quella sono sicuro di non avere un buon ricordo, benché i fatti vissuti siano relegati ad uno stato di oblio (e ci sarà anche un maledetto motivo).

Ad ogni modo, la sensazione che provo quando torno a quei momenti è la costante tensione derivata dal bisogno d’essere accettato dal mio prossimo. Era come se dovessi sempre dimostrare ad ogni persona che incontravo d’essere uno in gamba, uno che valeva, che compensavo il fatto di non essere molto alto (affare per il quale venivo preso in giro) con una mente brillante e la battuta pronta, ma tutto questo non era mai abbastanza perché piacere a tutti proprio non mi riusciva. Per semplificare il lavoro avrei potuto far parte di quel gruppo di fichetti di cui le ragazzine parlano sempre e che nessuno si sogna mai di contestare, c’erano stuole di miei coetanei che facevano di tutto per compiacerli: gli compravano la colazione, gli offrivano la coca cola, gli regalavano le figurine ed in alcuni casi si prendevano pure le botte al posto loro. Ho iniziato così a fantasticare di diventare uno di loro. Entrare nelle loro simpatie non era così male, avrei potuto stargli dietro quando facevano la loro sfilata in Via Roma ed aspirare a catturare l’attenzione di quelle ragazzine che loro avevano scartato. Per fortuna (o malauguratamente) ero troppo egocentrico per vantarmi di luce riflessa e così ho scelto di auto escludermi da quel mondo arrivando a disprezzarlo per la povertà dei suoi contenuti e per la falsità dei rapporti basati solo sullo status sociale. In poco tempo sono riuscito a trovare alcune anime affini che non rincorrevano la popolarità ed insieme abbiamo costruito una piccola grande amicizia. Sono stato fortunato, potevo anche restare solo come succede a tanti. Tuttavia, quel desiderio d’essere popolare mi è sempre rimasto dentro.

Poi è arrivata la musica, quella passione travolgente che ti fa restare ore a casa ad ascoltare un disco a ripetizione perché ti fa sognare. Con la musica ho iniziato a sentirmi davvero speciale e mi sono reso conto che in fondo non avevo bisogno di essere circondato dalle ragazzine o peggio fare il gregario leccapiedi per sentirmi bene, mi bastava qualche ora con le cuffie per ottenere tutta la tranquillità di cui avevo bisogno e la popolarità, beh… quella proprio non mi serviva più, in un’epoca in cui l’idolo delle ragazze era Simon Le Bon e la massima cultura musicale era espressa da nomi quali Samantha Fox, Den Harrow, Luis Miguel etc, nessuno avrebbe compreso il valore di un adolescente che stava quasi 2 ore ad ascoltare un capolavoro come The Wall immedesimandosi profondamente nel protagonista (a distanza di anni ho pure scritto un’analisi critica di successo).

Da semplice ascoltatore mi sono poi metamorfizzato in musicista autore. Ho scritto canzoni, pubblicato album, fatto concerti in posti del mondo dove non avrei mai sognato d’esibirmi. La musica è diventata lo strumento ideale per distinguermi dagli altri ed ottenere quella popolarità che in fondo al cuore ho sempre bramato: eccomi, io sono speciale, non ho bisogno di essere alto 1m e 80, né di avere il rispetto di quattro imbecilli in giacca e cravatta. Non devo essere un manager di successo, né comprarmi l’ultimo modello di SUV, posso anche vestire a cazzo di cane e non tagliarmi capelli e barba per 10 anni, ho una grande passione e scrivo canzoni e questo voi non l’avete, posso trasmettere le mie emozioni in un modo in cui tu fichetto figlio di papà non potrai mai.

Oggi non sono più sicuro delle vere ragioni per le quali ad un tratto ho imbracciato una chitarra e scritto canzoni, e cioè se la mia musa fosse ispirata dall’ideale romantico dell’artista che trasforma le proprie speciali emozioni in musica o se al contrario non sia stato solo il patetico tentativo di un egocentrico incapace di farsi amare in altro modo. Sono sicuro che ognuno di voi avrà avuto a che fare con quegli individui di cui si dice: l’artista supera l’uomo. In effetti il mondo di chi crea è pieno di casi borderline dove è difficile capire se il soggetto creativo produce arte per finalità “alte” o se al contrario lo fa per soldi o per stare al centro dell’attenzione. Forse è proprio l’artista che, più di ogni altro, ha bisogno di conferme, di sentirsi dire quanto sia bravo e geniale in maniera tale da potersi elevare al di sopra dell’uomo comune, che al contrario non ha nessuna particolare peculiarità. Adesso, non voglio fare del populismo (che ultimamente va molto di moda) e quindi vi dico le cose come stanno: essere una persona comune con desideri basici quali la scopata facile anche se hai un anello al dito, nessuna passione travolgente che non sia il calcio o i motori, poca empatia verso il prossimo etc etc è sicuramente una merda; forse è una tendenza che sviluppi quando nasci, forse te la insegnano mamma e papà, comunque sia non avrei mai potuto essere un imbecille della massa, uno di quelli che imbrogliano il loro prossimo credendosi più di una misera ombra che, come direbbe Battiato, marcia nel mondo alzando solo polvere (cit. La polvere del branco). Non sarei mai riuscito ad essere qualcosa di diverso da quello che sono, pur tuttavia, il bisogno d’essere ammirato e soprattutto la tensione di dover dimostrare d’essere un bravo musicista, un sensibile compositore, un uomo onorevole e oggi un padre ed un marito eccezionale, continua ad accompagnarmi da tempi non sospetti.

A volte la fortuna aiuta gli audaci. Nel mio caso mi sono convinto d’essere sempre stato fortunato perché in fondo non mi è mancato niente e sono riuscito a fare molte delle cose che volevo fare. A differenza di altri amici o conoscenti che navigano in acque buie e tempestose, ho trovato una moglie fantastica che mi ha dato un figlio sensazionale. Purtroppo non sono riuscito a fare della mia arte il mio mestiere e benché abbia creduto alla storia che va bene così, che probabilmente ho fatto un tipo di musica completamente sbagliato per questi tempi, in realtà aver rinunciato a scrivere per dedicarmi totalmente al “lavoro vero” e alla mia famiglia può aver contribuito al risveglio del mostro oscuro che alberga in ognuno di noi.

Credete stia parlando della depressione. Non è così… grazie al cielo. Parlo di quella parte di noi che vive di sole emozioni, che non conosce parole come accettazione e dovere, quella parte che abbiamo ereditato dal nostro bambino interiore che ci portiamo sempre dentro, quella creatura innocente che non aveva alcun problema a dire: questo non mi piace, non lo voglio; che non aveva paura a mostrarsi fragile quando prendeva uno spavento e che piangeva a dirotto senza preoccuparsi d’apparire debole. Mi manca quel bambino, lo rivedo in mio figlio e penso che vorrei imparare da lui, anche se fa disperare sua madre quando piange solo per farle dispetto o perché vuole semplicemente stare al centro della sua attenzione.

Ecco, è proprio quel bambino che adesso ha preso il controllo del mio corpo sbatacchiandolo a dovere, forse per far capire all’adulto che è il momento di frenare, che dimenticare se stessi non è accettabile, che la felicità perfetta raggiunta con una famiglia ed un lavoro stabile non basta quando dimentichi che sei anche altro, che un tempo scrivevo canzoni e poesie, che prendevo la chitarra in mano e cantavo senza pudore intenerendo le anime delle persone che mi ascoltavano e che questo mi faceva stare bene e mi piaceva, perché fare del bene al prossimo (specie con quello che so fare meglio) ha sempre fatto bene anche a me.

La felicità perfetta è un’illusione. Anche quando la tua vita va a gonfie vele è probabile che ti stia dimenticando qualcosa o qualcuno e che quel bambino che hai dentro salti fuori presto o tardi a farti un bel buco nell’io-zona (tit. suggerito da Chiara Randone, sorella consulente ed esperta in saturazioni dovute ad eccesso di dedizione).

Da bambini ci insegnano che la vita è meravigliosa, che qualsiasi problema può essere risolto, che alla fine tutti vivono felici e contenti… ed è giusto che sia così. Un bambino deve poter credere, anche solo per quel breve periodo che è l’infanzia, che non esista problema per il quale non ci sia una soluzione, che mamma e papà possono mettere a posto qualsiasi cosa. Il problema è che quando hai la fortuna di incontrare pochi ostacoli nella tua vita, quest’idea la consacri anche all’età adulta ed inizi a convincerti che tutto ti andrà bene anche se lavori come un pazzo perché devi confermare l’idea di lavoratore, padre e marito perfetto che gli altri hanno di te, e questo perché in fondo sei sempre quello stupido adolescente che cerca d’essere popolare, solo che il tuo pubblico in questo caso sono i tuoi colleghi/datori di lavoro, tua moglie e tuo figlio, e a loro devi dimostrare d’essere sempre al meglio delle tue capacità, che non puoi mancare in nulla o farti vedere debole, perché in caso contrario faresti sorgere in loro il dubbio che non sei affidabile al 100% che sei incapace di reggere un carico per il quale, al contrario, avevi dato piena disponibilità.

Un buco che ho nel cuore ha permesso il passaggio di un insidioso proiettile sanguigno che ha colpito a tradimento la mia io-zona, e questo era solo il colpo d’avvertimento. Adesso il buco si fa più grande, interessa la mia vita e tutti i “no” che non ho detto, si mette in mezzo impedendomi di fare il lavoro di sempre e cioè marciare a 3000 per accontentare tutti. Il buco si allarga quando penso alle delusioni del passato, agli amici che mi hanno tradito, alla mia amata musica che sto trascurando, al dolore che ho causato anche involontariamente al mio prossimo e si alimenta quando penso alle brutture del nostro mondo, agli uomini che uccidono le loro compagne perché non riescono ad accettare l’abbandono, ai bambini che non hanno dei genitori, alle persone che fuggono dalla guerra e cui vengono sbarrate le porte… il mio buco sta nutrendosi del male del mondo e non riesco più a trattenerlo.

La mia cara sorella consulente ed esperta in saturazioni dovute ad eccesso di dedizione mi ha consegnato in questi giorni una grande verità e cioè che non esiste un marito perfetto, né un lavoratore impareggiabile, né tanto meno un padre col dono dell’ubiquità; ognuno di noi è imperfetto anche se la folle società dei nostri tempi vorrebbe farci credere che non è così (forse è per questo che gli ansiolitici sono tra i farmaci più gettonati). Tutto quello che mi è accaduto è stato stupendo ed è stato come vincere ad una lotteria, solo che trovarsi tante cose belle tra le mani e deviare bruscamente dal percorso che conoscevo senza riconoscerne il peso emotivo è stato lo sbaglio più serio che abbia mai fatto negli ultimi 46 anni. La vita non è una favola a lieto fine, un nuovo lavoro più sicuro ed una famiglia perfetta è sicuramente qualcosa di cui essere grati, ciò non toglie che ci serva anche altro perché dei miei ideali romantici, delle conquiste razionali, di cuoricini ed angioletti, alla mia io-zona forse non frega proprio niente.

Che strano mondo quello della psiche umana, riesci a convincerti così tanto del fatto tuo che non senti lo stress che ti attanaglia il petto la sera prima di andare a dormire, che non ti accorgi di dover tenere il cellulare tra le mani per calmare l’ansia che galoppa, che non senti la stanchezza anche se dormi solo 5 ore a notte. Peccato solo che nella nostra stessa mente ci sia una parte che a mia sorella, consulente ed esperta in saturazioni dovute ad eccesso di dedizione, è piaciuto chiamare l’io-zona, una parte che è stata colpita quasi a morte e che adesso sta reagendo, che sta difendendo il suo diritto ad esistere e a mantenere in equilibrio tutto il resto.

Cosa fare adesso? Per fortuna ho una sorella super-esperta ed una moglie che non ha pronunciato le promesse matrimoniali a vanvera quindi è tempo che rallenti ed inizi a riprendermi quella parte di me che ho lasciato indietro. Al bambino della mia io-zona chiedo di portare un po’ di pazienza, che sto facendo del mio meglio, e che presto o tardi ne usciremo entrambi con una ricchezza in più.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

1 Comment

  1. L’io zona e’ un luogo di memoria kantiana che non deriva dalla realtà , ma che sulla realtà si riversa . E’ un punto seguito dai puntini di sospensione … e’ silenzio circondato dal rumore e rumore frastornato dal silenzio. E’ paura di sbagliare e di scoprire che lo sbaglio sia la cosa migliore che tu potessi fare . E’ sangue e acqua . E’ cadere nel vuoto e avere il tempo di accorgerti che sei atterrato da tempo …. oppure che hai imparato a volare . E’ restare paralizzato dalla forza dell’esistenza e muoversi ad ultrasuoni . L’io-zona e’ storia che si consuma nella polvere dei ricordi e che spazza via l’equilibrio della finzione . E’ vita che si rinnova , e’ speranza nel rinnovo dell’esperienza , e’ la forza Dell’abbandono e la vittoria della rinuncia : alla vita, all’amore , al dolore !!! Tvb Broh

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