Hotel Biancaneve

15 Novembre 2003
37 minuti di lettura

di franc’O’brain

C‘era una volta…

«Un re!» direte voi, miei piccoli e ingenui lettori.

Niente affatto. C’era una volta…

«Un pezzo di legno?»

No, maledetti bastardi! C’era una volta un becchino. O, meglio, un garzone di becchino. Il suo nome era Paul, e aveva accettato di fare quel macabro apprendistato per potersi mantenere agli studi.

Il giorno in cui inizia la nostra storia, Paul entrò nella camera ardente, detta anche Antichambre (una sorta di sala d’attesa per cadaveri in transito), appoggiò la vanga in un angolo e si appressò a una cassa. Una cassa di zinco, scoperchiata; dentro vi giaceva una ragazza. Secondo le "ricevute di consegna" che Paul aveva sbirciato, la defunta si chiamava Yvonne. Il responso del medico legale parlava di suicidio.

Sporgendosi oltre l’orlo del cofano funerario, il giovane osservò la morta: doveva aver avuto ventitré, al massimo venticinque anni, ed era di un’avvenenza poco comune.

Si chiese perché mai si fosse uccisa. Faceva quel lavoro da sei mesi e pensava di essere ormai abituato alla morte, ma un cadavere così "estetico" non lo aveva mai visto. Yvonne. «Lady Yvonne», sussurrò, evocando la Lady Ligeia di Poe. «Non solo è bella», reputò: «è bellissima». Nella mente gli risuonò quanto gli avevano detto dopo che l’avevano portata lì, nell’Antichambre. Era stata trovata stecchita, le pupille spalancate e un tubetto stretto nel pugno: overdose di sonniferi.

Colto da sentimenti contrastanti, Paul si chinò su quel volto esanime. Sotto gli occhi, Lady Y. aveva due virgole nere che sembravano ditate d’inchiostro. Paul si sporse ulteriormente. Le labbra della deceduta erano violacee, come se ritoccate con un rossetto di quell’insolito colore. Lui sapeva che a quell’ora nel camposanto non c’era nessuno, e tuttavia si guardò furtivamente alle spalle prima di fare quel che fece. Nel silenzio assoluto, che risultò più stridulo del grido corale di una folla di fantasmi, le sue labbra sfiorarono quelle della fu Yvonne. "Algide ma morbide" giudicò. Il bacio durò pochi secondi. Dopo ritrasse la testa, tornò a guardarla e… si irrigidì. Nel bel viso perfettamente bianco, come di biacca, aveva visto contrarsi un muscolo. Il sospetto che quel cuore ancora palpitasse lo riempì di un così spaventoso e intollerabile orrore che la sua immaginazione arretrò, atterrita. Poi, all’orrore si mescolò qualcos’altro: speranza!

"Ho allucinato?" si chiese. Era certo di no. Aguzzò lo sguardo e, mentre un tremore incontrollabile si impossessava di lui, vide muoversi la palpebra sinistra di Lady Y.

Paul non aveva mai creduto a storie di spettri vaganti e di resurrezioni, e solitamente i film horror lo rendevano ilare. Eppure, in quel frangente si sentì aggricciare le budella. Una sensazione di brivido gli percorse lungamente la schiena, e si chiese se Qualcuno – o Qualcosa – volesse punirlo per quel bacio profano. Ma alla fine prevalse lo scientismo che gli avevano inculcato durante la lunga e, ahilui, non ancora conclusa carriera accademica. "C’è una spiegazione per ogni cosa" echeggiò da qualche parte nella sua scatola cranica. "Esiste una soluzione per tutto."

Ah, sì? Valeva anche in quel caso?

Si precipitò verso uno scaffale, dove trovò il libretto d’istruzioni – una sorta di Manuale per il becchino -, che sfogliò con dita spasmodiche. Dove diavolo…? Eccolo! Capitolo 5, paragrafo 6. Lesse:

"Nel caso subentri il sospetto che il soggetto sia ancora vivo, o riaffiorato alla vita, mettetelo in posizione di seduto."

Respirando con pesantezza, abbrancò la giovane donna per le spalle; la testa di lei ciondolò come quella di un manichino rotto. Artigliando il libretto e reggendolo a mezz’aria, lesse al di sopra della capigliatura del presunto cadavere:

"Massaggiategli gli arti con un panno di cotone imbevuto di aceto. Ponetegli vicino alle narici la boccetta dei sali."

Aceto… sali… Lo sguardo di Paul saettò in direzione degli scaffali. Aveva visto tutto là, da qualche parte… ma la penombra copriva quella parte dell’Antichambre. Mentre continuava a reggere "il soggetto", succhiò con gli occhi le righe successive, alla disperata ricerca di una suggerimento veramente utile, di un rimedio portentoso, qualcosa che salvasse la situazione.

"A intervalli regolari dategli un cucchiaio di vino e mollategli a più riprese dei colpettini sulla pianta dei piedi."

Questo significava che doveva toglierle le scarpe?… Leggi ancora, forza!

"Chiamate ad alta voce il suo nome, ripetutamente."

«Yvonne, Yvonne, Yvonne!»

Nessuna reazione. Probabilmente funzionava solo dopo aver applicato il metodo dell’aceto, dei sali, del vino e dei colpetti sui piedi.

"Qualora gli occhi del soggetto persistano a rimanere chiusi e non pervengano segni di respirazione, fategli un clistere…"

«Madre di Dio!»

"… di acqua tiepida con qualche goccia di olio. Se il soggetto si rianima, dategli da mangiare una zuppa calda."

«Che trattamento di merda! È quasi meglio che rimanga morta…»

La adagiò di nuovo nel feretro, con cautela. Lasciò scivolare sul pavimento il manuale e, carico di disperazione, e indeciso se correre a prendere l’aceto, la peretta per il clistere e il resto oppure lasciar perdere, finì col baciarla di nuovo sulla bocca, esercitando stavolta una maggiore pressione sulle labbra violacee.

Allora lei si mosse. Emise un lieve mugolio, mentre le pesanti palpebre si sollevavano.

«Per tutti i…» sussurrò Paul, ritraendosi pieno di spavento.

La vide rizzarsi a fatica artigliando il bordo della cassa e poi guardarsi intorno con espressione attonita.

«Cristo santo!» urlò lui. Si scagliò sul telefono e, mentre digitava il numero del suo capo, interpellò la rediviva: «Signorina? Signorina Yvonne?»

I loro occhi si incrociarono – quelli di lei strabici – e, entrambi storditi e tremanti, si fissarono per una manciata di secondi.

«Pronto?» sbraitò all’improvviso qualcuno nell’orecchio di Paul.

«Sì, pronto, pronto», fece eco lui, sobbalzando; e prese a farfugliare sconclusionamente, finché la voce del Funeralmaster (ovvero il capobecchino) non lo interruppe:

«Ho capito. Sta’ calmo, ragazzo. Non ti muovere di là. Avviso chi di dovere».

La comunicazione venne interrotta e Paul tornò a guardare la ragazza, che, confusa, lo guardava a sua volta. «Yvonne», ripeté con un filo di voce. «Io…»

«Co… cosa…?» rantolò l’ex salma.

A questo punto vogliamo aprire una parentesi a beneficio dei lettori più increduli. Chiunque di noi ha già sentito e visto storie su "zombie", su morti che escono dalle bare, su ladri di cadaveri che vengono improvvisamente risucchiati dentro la fossa da loro stessi scavata; storie su carogne umane che, animate da una forza infernale, si vendicano sui loro aguzzini, o su morti ammazzati che prendono a passeggiare per le sale di un obitorio. Quasi sempre scuotiamo la testa – come l’apprendista becchino -, pur non nascondendo la nostra ammirazione per chi ha partorito questi racconti. Ma ci basterebbe fare delle ricerche un tantino più approfondite per scoprire che non di mera fantasia si tratta.

Del fenomeno dei "morti viventi" si sono a lungo occupati pensatori, filosofi e scienziati. Volle interessarsene anche Christoph Wilhelm Hufeland, un medico del XVIII secolo specializzato nelle malattie dei neonati. Nel 1790 Hufeland pubblicò sul Teutschen Merkur un articolo che sensibilizzava l’opinione pubblica sui casi di inumazione vivente. Fu lui ad istituire il primo obitorio della storia.

In Francia, un emandamento del 21° Vendémaire dell’anno IX dopo la Rivoluzione suggeriva che "le persone che si trovano accanto a un malato grave al momento del suo supposto decesso devono assolutamente evitare di coprirgli il viso e di esporre il suo corpo a correnti d’aria fredda".

In campo letterario, numerosi sono i riferimenti alle morti apparenti. Johann Christoph Friedrich Haugh, amico di Schiller e di Hölderlin, acquisì celebrità scrivendo poesie sul… naso. Una di esse reca il titolo Prudenza necessaria, e recita: "Lo tormentò sovente – il timore della morte apparente. / Ma c’è da stupirsi? – Probabile che il Nostro / Giacesse là sotto come defunto per settimane, ma in realtà ancora in vita, / pur se l’anima già attraverso il naso gli era sfuggita."

Una volta, in America fu esumato un cadavere e si scoprì che l’uomo aveva graffiato con le unghie, all’interno del coperchio, le lettere "H-E-L-P!"

Sempre in America fu inventato un tipo di feretro provvisto di riserva d’aria che aveva un’autonomia di settanta ore. Nel 1878, in Germania, fu rilasciata la patente per una "bara con sistema d’allarme incorporato". Si doveva avvolgere un cavo elettrico intorno alle mani della persona intombata; al minimo movimento suonava una campanella, una bandiera si innalzava e il coperchio scattava verso l’alto.

E che dire di Hans Christian Andersen? Il celebre fabulatore danese era divorato da una paura arcana: l’orrore di restare vittima di un fatale equivoco. Sistematicamente, prima di andare a letto, metteva sul tavolo da notte un bigliettino su cui stava scritto: "Sembro morto ma non lo sono!". Un’ammonizione a chi, trovandolo esanime, potesse pensare troppo affrettatamente al peggio.

Noi stessi, figli del XXI secolo, così attivi e vitali, siamo spesso preda di fenomeni inspiegabili. Microsonni, brevi blackouts che ci colgono sul lavoro o mentre guardiamo la tele. Siamo "stanchi morti", avvertiamo "una fiacca mortale"… E quante volte dormiamo "come un morto"? Insomma, spesso ci troviamo più di là che di qua. Ma del resto che cos’è la vita, se non una malattia mortale che viene trasmessa con l’atto sessuale?

Paul e l’ex defunta continuavano a fissarsi quando all’improvviso qualcuno strombettò: «Pa-paaah! Eccoci!»

Due sconosciuti irruppero nella camera ardente. Il primo, alto e magro come un chiodo, sembrava un clone di Bela Lugosi; l’altro, piccolo e rotondetto, aveva il sorriso giallastro tipico dei nicotinomani. Fu quest’ultimo a dire: «Siamo stati veloci, eh?» Poi avanzò insieme a Bela verso il cofano mortuario. A sforzi congiunti, i due aiutarono la giovane donna a sollevarsi. «Non c’è motivo per guardarci in questo modo», disse Piccolo all’esterrefatto Paul. «Per venire qui abbiamo dovuto attraversare solo un paio di strade.» E, rivolto alla risuscitata, le chiese sommessamente: «Pronta per fare una passeggiatina?»

Per tutta risposta, lei scoppiò in un pianto dirotto. Il brusco ritorno alla coscienza, il rendersi conto della natura del suo giaciglio, la visione di tutte quelle lampade a forma di candela disposte in circolo… Ogni cosa era stata troppo per la sua povera psiche. Ma i due bizzarri personaggi non le diedero il tempo di riflettere: sorreggendola da ambo i lati, si avviarono con lei all’uscita. Prima che scomparissero nella luce accecante del sole, lo sconvolto Paul trovò la forza di chiedere: «Dove la portate?»

«All’Hotel Biancaneve», annunciò vivacemente Piccolo. Specificando, con un ammiccare di occhi e con energici cenni del mento: «Oltre quelle mura».

Varcato il ferreo cancello, lo strano terzetto percorse il dedalo di viuzze che, fiancheggiando il cimitero, salivano verso la collina. Piccolo e il compare sballottolavano la ragazza di qua e di là, come un fantoccio. Yvonne, inerte, tornava pian piano alla vita, cosa che per lei equivalse a risalire la corrente di due fiumi, non di uno. Se chiudeva gli occhi, le sembrava di vedere vermi; vermi attorcigliati a formare un’unica creatura fornita di mille lingue. Il rumore di una strada lontana le si ritorceva nel cosmo interiore, che ancora era permeato di un silenzio innaturale. Non soltanto l’anima: anche il corpo di Yvonne nuotava in un oceano di ossa frantumate. E, d’un tratto, una voce cupa le chiese: «Li vedi? Vedi i cavalli della Morte?» Sì, li vedeva: si stagliavano contro il cielo e, con il loro nitrito, scuotevano le fronde dei cipressi. Tutt’intorno, nell’asfalto, si aprivano crepe che inghiottivano il carname.

Emise uno strillo, mentre le sue ginocchia cedevano. Allora Piccolo le diede un pizzicotto sul braccio, sgridandola: «Basta! L’incubo è finito, bellezza. Scuotiti il gelo di dosso. Guardati in giro. Presta gli occhi al cielo, le gambe alla terra».

Reguardita in maniera tanto rude, lei annuì e tornò istintivamente a far leva sulle sua gambe. Dopo qualche secondo, i tre poterono riprendere il cammino. Imboccarono una strada che saliva al poggio.

Lassù, sulla sommità, sorgeva un palazzo orrendo e fatiscente. Non tutti lo lo sapevano, ma l’Hotel Biancaneve – questo il nome che compariva su una targa d’ottone quasi illeggibile – era un’istituzione benefica: un rifugio per "deceduti" inopinatamente tornati nel mondo dei vivi. Le persone che abitavano nei dintorni erano riluttanti a sbottonarsi, ma si vociferava che da quell’ostello provenissero ogni tanto "urla da catacomba".

Appena arrivati, Bela sollevò un pugno dalla consistenza di un maglio e lo battè energicamente sulla porta di quercia. Dopo un po’ fu loro aperto: da un strano nanerottolo che subito prese a lamentarsi: «Uff! C’è un mucchio da fare quest’oggi!» Così rimbrottando, l’idiota deforme arretrò, lasciando passare i visitatori.

Yvonne continuava a farsi sospingere senza opporre resistenza. Osservava ogni cosa con occhi allucinati e, quando il trio entrò in un vano in cui a predominare era il colore bianco, fu presa in consegna da un’infermiera.

«Uhm… Il tuo aspetto non è malaccio», constatò l’infermiera. «Molti arrivano qui in condizioni persino più penose: mezzo mangiati dai vermi oppure consunti dalla dissenteria. Spesso tutt’e due le cose.» La donna afferrò una spugna intrisa d’aceto e la passò con delicatezza sulle labbra di Yvonne. Intanto proseguiva: «Di solito ai "clienti freschi" rifiliamo un’iniezione di Pervitin o morfina. Ai meno shockati diamo da bere caffè ultraforte. Ma nel tuo caso andrà bene anche un tè alle erbe».

E, dopo un minuto, le porgeva una tazza scottante, ordinandole: «Bevi!»

Yvonne ingollò meccanicamente il liquido verdastro. Fu come se un fiotto di lava le si riversasse nel tubo digerente. Tossicchiò. Ma l’effetto fu benefico: immediatamente si sentì meglio.

Studiandola con occhio clinico, l’infermiera diceva frattanto in un dittafono: «Occhi fluorescenti… movimenti felini rallentati… la solita deviazione iperbolica e allucinatoria… profilo affilato e infossato…» Poi spense l’apparecchio e: «Hai freddo?» le chiese.

Yvonne fece di sì con la testa.

«È il logico effetto collaterale», spiegò l’infermiera. «Per i prossimi giorni, forse settimane, per te non sarà mai caldo abbastanza. Perciò dovrai assumere molte bevande calde. Capisci?»

Tornò a riempirle la tazza. Poiché la ragazza appariva stordita, l’infermiera le concesse altri dieci minuti per acquistare dimestichezza con sé e con le cose che la circondavano. Quindi la aiutò a spogliarsi e la sospinse sotto un getto d’acqua bollente. Dopo la doccia la avvolse in un caffettano, una specie di sudario.

Per Yvonne tutto questo accadeva tra le nebbie di un ricordo che assomigliava a qualcosa di vago e che invece era il presente. L’indefinibile malessere persisteva, ma nella sua mente il silenzio sepolcrale aveva ceduto il posto a una remota filastrocca infantile. Una melodia talmente dolce da rintuzzare il sentore di esalazioni mefitiche, l’incubo della prigione sottoterra (le botole sono abbassate, il cielo è chiuso fuori).

L’uomo che dopo un po’ le piombò addosso era brutto come il diavolo: occhi iniettati di sangue, muso prognato, naso camuso, barba ispida e sudaticcia. Lo chiamavano "Doc" perché si presumeva che avesse cognizioni nelle materie mediche. Malgrado l’aspetto, questo individuo aveva una voce gradevole, una voce che non percuoteva l’orecchio ma lo accarezzava. Apprestandosi a visitarla dalla testa ai piedi, le disse: «Ho saputo che volevi suicidarti. Ma perché? Giovane e carina come sei…»

Nel frattempo le infilava i suoi freddi strumenti in ogni orifizio.

«Ricordati», continuò il Doc: «la vita è uno show. Non occorre prendersela sul serio per nessuna cosa al mondo.»

Il mondo? Yvonne chiuse gli occhi. Esisteva un luogo chiamato così? Ebbe una vaga rimembranza di neve e vento, di sospesa disperazione. Se ripensava al suo mondo, e dunque al proprio passato, vedeva una bimba sprovveduta smarritasi nel quotidiano come dentro a una tetra foresta. Si rese conto che la sua vita era stata un ginepraio di paranoie. "Vita": sinonimo di catena di dispiaceri, di mal di testa ipocondriaco.

«Hai avuto fortuna a risvegliarti prima di essere seppellita», le disse il Doc, senza smettere di farle la necroscopia. «Alcuni dei "morti" riacquistano coscienza mentre sono sottoterra e, nell’afferrare la gravità della situazione, muoiono per davvero: a causa del trauma, dello spavento. Comprendi? Naturalmente lo spavento può giocare brutti scherzi anche in condizioni normali, risultando letale. Per via dell’angoscia, della fobia della morte, un corpo umano o animale produce nitrosamine, una sostanza altamente tossica, e arriva ad autoavvelenarsi. Oh, fatto!» concluse, spiccando un comico salto all’indietro. «Ora ti occorre solo il barbitonsore… il parrucchiere. Mi intendi?» chiese, guardandola da dietro le lenti che gli deformavano gli occhi. «Capisci?»

Un po’ irritata, Yvonne annuì. Capiva, sì. Mica era straniera!

«In questo etablissement c’è pure una manicure», proseguì il medico, con tono ironico. «Le unghie e i capelli non smettono di crescere nemmeno dopo che siamo morti. Ah, ah.» Ripose lo stetoscopio, le pinzette, le forpici e il resto dell’attrezzatura e andò a sedersi alla scrivania; infine le consegnò un foglio.

Yvonne guardò quel pezzo di carta con pupille vacue. Solo dopo qualche secondo realizzò che si trattava del suo certificato di morte con sopra, di traverso, la scritta in rosso: "NULLO".

Un fiotto di aria le sfuggì dalle narici. Aveva voluto farla finita, voltare le spalle alla vita, annichilirsi. Invece… Eccolo là, nero su bianco: l’annullamento… annullato.

Aveva detto di no dapprima alla vita e poi alla morte. E ora? C’è forse un’alternativa a queste due vie?

L‘infermiera e una domestica di colore la accompagnarono nella sua cameretta, dove le rimboccarono le coperte prima di lasciarla sola. Fuori calava il crepuscolo. Non un rumore disturbava la quiete di quell’ora. Tuttavia, Yvonne faticava a cadere nell’incoscienza. Era stanca, sicuro, ma… dormire? Non aveva dormito già abbastanza nella cassa da morto? Calcolò di essere stata "in letargo" per ventiquattro ore, se non di più. Un letargo erroneamente confuso con la morte… Di una cosa, comunque, era persuasa: per lei, il ricordo di quell’esperienza agghiacciante, di quel soggiorno nell’intermundium, sarebbe rimasto indelebile come se inciso con l’acido.

Senza muovere la testa, girò lo sguardo tutt’intorno per studiare il suo nuovo, piccolo regno. I mobili erano chiari, la finestra spaziosa; ma a quell’ora (corrispondente al Dämmerung dei tedeschi) cupi fiori d’ombra costellavano i tremetripertre. Immaginò di vedere balzare da un momento all’altro, dalle propaggini d’oscurità, un grosso pipistrello o un lupo feroce. Si rivoltolò ripetutamente, a lungo. Alla fine però riuscì effettivamente ad addormentarsi, e il suo fu un sonno profondo e privo di sogni; quasi una seconda morte.

Si ridestò ore dopo, senza capire dove si trovasse. Si sentiva eccitata e, nel suo stato di semisincope, di quasi deliquio, cominciò ad accarezzarsi le parti intime con gesti meccanici, concentrandosi sul ricordo di un giovane senza nome. Il Messer stava a guardarla con cipiglio dolce. Guardava, guardava… Dov’era accaduto? Chi era quello sconosciuto?… «E chi sei tu?» le chiese lui, con raffinatezza incantevole. Yvonne sorrise interiormente. Sentiva che, se si fosse legata in un amplesso con quel giovane dall’aspetto fresco e indecomposto, l’oltretomba non le avrebbe più fatto né caldo né freddo: anzi, stavolta sarebbe entrata nella cripta volontariamente, hilari animo.

Si alzò e sbirciò dalla finestra. Nuvole brune fuggevano veloci al di sopra di tutto. In lontananza si udiva una musichetta che saliva e scendeva, saliva e scendeva… Un odore terrigno proveniva dal giardino, come se il Mondo dei Morti avesse spalancato le sue fauci. Un brivido di paura le fece vibrare la pelle. Non sarebbe finita proprio mai? Doveva continuare a soffrire in preda a quel timore perpetuo? La testa le doleva, impossibile riflettere chiaramente… I suoni parvero crescere d’intensità. Andò alla porta e a piedi scalzi, avvolta nel buffo caffettano e coi capelli simili a un cespo di alghe, iniziò a scendere le scale.

Voci concitate punteggiavano la futile musica in sottofondo. Aggrappata al passamano, Yvonne si fermò sugli ultimi gradini e sporse la testa. Nel salone ci saranno stati quindici zombie o giù di lì, metà dei quali danzava al suono di una radio, mentre gli altri giocavano a carte o chiacchieravano con il personale della clinica­dormitorio. Il sangue le defluì dal cervello; le parve di svenire. Quelle orride figure da luna-park… doveva considerarsi una dei loro? Era una scena che -ritenne -apparteneva a un’epoca post-conflitto nucleare. Quei visi terrei, quei crani spelacchiati roteanti al suono di un’orchestrina da balera… erano il ritratto di un mondo corrotto e decadente, e le facevano capire che cosa sarebbe stata la sua esistenza nei giorni, nei mesi, negli anni a venire: una morte nel pieno della vita. Vita? No, non vita ma il suo simulacro.

«Oh, ecco la nostra cara pecorella!» La voce dell’infermiera le trafisse le tempie come una lancia. «Ma cos’ha? Si sente male? Vuole un’aspirina?» E già accorreva per sostenerla. Yvonne si sentì sospingere in avanti; si accorse che stavano attraversando il salone: l’infermiera salda sulle gambe, lei vacillante. Uno specchio le rimandò indietro la propria immagine e, bizzarramente, lei stessa si giudicò bella. Orrendamente bella. Quasi a conferma di questo pensiero, vide che tutti i morti ambulanti si giravano per guardarla. Le loro occhiate le si avvolsero intorno come per cercare di strapparle il sudario. «Sù, sù, coraggio. Ora farà la conoscenza di Madame Spürli», annunciò allegramente l’infermiera.

Poco dopo, Yvonne si ritrovò al cospetto di una donna che, se non fosse stato per l’abito a lutto, avrebbe potuto benissimo essere scambiata per la tenutaria di un bordello.

«Benvenuta all’Hotel Biancaneve!» fu il saluto di Madame, mentre al posto dell’infermiera si materializzava l’abnorme maggiordomo. La ragazza battè convulsamente le palpebre. Impossibile pensare in maniera chiara. «Siediti pure», la invitò l’anziana Madame, indicandole una poltrona che doveva provenire dal mercato delle pulci. «Il nostro etablissement», prese a informarla, «è stato fondato da mio marito, che Dio lo abbia in gloria. Spero che ogni cosa sia di tuo gradimento! La casa dispone di quindici camere e, come ti sarai accorta, le lenzuola sono sempre fresche, i termosifoni sempre accesi…»

La vedova si prolungò nelle sue spiegazioni, mostrando di andare orgogliosa per la piccola ma fiorente azienda ereditata dal consorte. Yvonne cercò di recepire quel discorso girandosi e rigirandosi nervosamente sulla poltroncina. E, ad un certo punto, esclamò: «D’accordo, d’accordo! Ora sono qui. Ma… poi?»

Il nano deficiente, che era intento ad armeggiare con una teiera, scoppiò in una breve risata.

«Per prima cosa», ribatté la vedova, «ti aiuteremo a rimetterti in sesto, finché non sarai pronta ad affrontare la vita.»

«La… vita?» Lo sguardo di Yvonne scivolò su una parete e andò a fermarsi su un quadretto che recava la scritta: "Le soleil ni la mort ne se peuvent regarder fixement." Mentre rifletteva su quel motto di La Rochefoucald, che lei tradusse con una certa difficoltà ("Non si può guardare fissamente né il sole né la morte"), e si stupiva di trovarlo veritiero, il gobbetto le pose sotto il naso una tazza colma del solito tè alle erbe.

«Devi bere molto», le disse Madame Spürli, rifacendo il verso all’infermiera. Sorridendole bonaria, la donna attese che lei ebbe svuotata la tazza, quindi si alzò con insospettabile energia e aggiunse: «Vieni che ti presento al branco!»

Precedute dal laido nano, la vedova e Yvonne fecero il loro ingresso nel salone. Avvertendo sotto i piedi nudi la levigatezza del parquet di acero, Yvonne prese nota una volta di più di come gli sguardi dei morti viventi le si incollassero addosso. Alcuni si leccavano manifestatamente le labbra… o quanto rimaneva di esse. E non a torto! Nonostante avesse il volto segnato, la nuova arrivata dava un bel colpo d’occhio.

L’arzilla vedova batté le mani, urlacchiando: «Tacet! Silentium!», e di colpo la melodietta e il brusio tacquero. La colonia di strani personaggi formò intorno a loro un cerchio.

Yvonne credette di avvertire l’odore della decomposizione salire da quei corpi, e persino i topi che le correvano nelle vene si arrestarono per un momento, trattenendo il fiato. Quelle fatiscenti baracche fisiche, già lombrichi ruminanti nell’umida terra, probabilmente non avrebbero potuto mai più metamorfosizzarsi in qualcosa di umano. Due o tre mani ungolate si tesero verso di lei. «Piacere!» borbottò qualcuno, ma lei si fece più piccola per sottrarsi al contatto e, tremando, si curvò all’orecchio di Madame. Le sussurrò: «Sono tutti…?»

«Sì», rispose quella. «Li hanno trovati esanimi e hanno creduto che per loro fosse finita. Un errore di valutazione, precisamente come nel tuo caso.» Poi, rivolta al mucchio: «Guardate chi vi ho portato. Simpatica, vero? Mi raccomando, socializzate!» E, con orrore di Yvonne, girò sui tacchi per tornarsene al suo ufficio, lasciandola sola con quei voyageurs del Sottomondo.

«Socializzate! Socializzate!» disse di rimando il cretino di bassa statura, ridendo sguaiatamente e facendo ridere anche gli ospiti dell’"albergo". Yvonne guardò quegli occhi immobili, affondati in orbite febbrili, circondati da pelle maculata; fissò le bocche grottescamente contorte… e non poté fare a meno di ricordarsi che, fino a poco tempo prima, quelle mascelle avevano morso il fango, si erano chiuse sulla terra verminosa… Mio Dio! mormorò, e fu lì lì per perdere i sensi. Ma, ancora una volta, ci furono mani pronte a sorreggerla, e si ritrovò seduta a un tavolo. Davanti a lei, un Matusalemme dalla dentiera traballante che blaterava: «Il respiro è un fattore importantissimo, amica mia! In India si conoscono tecniche millenarie per respirare con dovizia. Chi sa respirare, vive più a lungo! Mi son messo a studiare il Pranamaya… così si chiama questa scienza… fin dal giorno in cui mi hanno dissotterrato, salvandomi all’ultimo secondo dall’asfissia. Il respiro è il pneuma. Non è l’alito, non è l’anima, ma qualcosa che concerne l’uno e l’altra. E questo pneuma…»

Il vecchio continuò a salmodiare sulla stessa falsariga, visibilmente entusiasta di averla lì, di fronte a lui. Lei, al contrario, era tutt’altro che contenta. Gli ospiti dell’Hotel Biancaneve offrivano uno spettacolo a dir poco avvilente. Il personale le sembrava abbastanza a posto: individui seri con uno spiccato senso per l’etica professionale. Ma i "clienti"…

Ebbe un moto di indicibile sconforto. Che cosa ci faceva in quel posto assurdo? Avrebbe mai dimenticato? Sarebbe sopravvissuta?

Le ci vollero diversi giorni per realizzare che non era capitata in un circo permanente di curiosità zoologiche. Gli ospiti dell’hotel erano sostanzialmente normali.

È vero, alcuni apparivano innaturalmente pallidi, ma nessuno soffriva di rigidità cadaverica. Dopo essersi lasciati alle spalle le proprie esequie, quei poveracci muovevano i primi passi nel tentativo di reintrodursi nella dimensione dei vivi.

«Non fate i contriti. Godetevi la vita!» soleva ripetere Madame Spürli. Sorprendente l’energia della vecchia, e impeccabile il modo in cui conduceva l’"albergo". Sotto la sua guida, l’Hotel Biancaneve si presentava come un’organizzazione perfetta. Nella ben attrezzata cucina, teiere e caffettiere borbottavano costantemente. In ogni camera c’era un apparecchio telefonico, antiquato ma funzionante. (Non si sa mai: magari i "clienti" volevano avvertire i parenti o qualche amico del loro imminente ritorno… Per quanto riguardava Yvonne, lei non aveva proprio nessuno cui poter annunciare: «U­uhhh! Rieccomi!») Sul comodino accanto al letto stava della carta da lettere e in uno dei cassetti era contenuta una Bibbia: nell’eventualità che la persona rediviva volesse sdebitarsi con il Signore per Grazia ricevuta. «Ovviamente possiamo fornire anche il Corano, la Torah e altri libri sacri», le aveva detto la vedova, en passant.

Ma… e la parcella? Chi la salda?

Beh, la parcella veniva recapitata ai familiari dei "morti presunti". In mancanza di familiari, o se questi si rifiutavano di pagare, interveniva Papà Stato a colmare il vacuum. C’è una legge che prevede una sovvenzione appositamente per questi casi.

L’hotel vantava un cuoco in gambissima: lo si deduceva già dall’aspetto delle pietanze. Peccato che Yvonne soffrisse di inappetenza ad oltranza! Scoprì di non poter buttare giù un solo boccone. A ora di pranzo, andava a sedersi al tavolo con gli altri, ma solo perché era costretta a farlo; il pensiero di farsi passare del cibo per la gola bastava per farla rigurgitare.

«Ma qualcosa dovrai pur mangiarla!» la ammonì il Doc. «Non metti niente nello stomaco da quattro… no, lasciami pensare… cinque giorni! Mi sembri una delle tue coetanee – e sono legioni! – sofferenti di Anorexia nervosa. Non ci si può limitare alle sole bevande!»

Invano lei cercò di sottrarsi alle iniezioni di vitamine cui il medico la sottopose.

«Certo», vaticinò lui, «non saresti la prima che fa digiuno totale e riesce tuttavia a sopravvivere. Ci sono stati tramandati molti casi. Si dice che la tedesca Therese Neumann abbia vissuto per 35 anni senza mai assumere sostanze solide o liquide. Il suo unico "sostantemento" consisteva nell’ostia della comunione quotidiana. La pia donna ebbe esperienze di levitazione, oltre che di bilocazione (ciò significa che poteva essere presente in due luoghi nello stesso momento). Poi ci fu Klaus von der Flüe, il santo protettore della Svizzera. Il buon Klaus digiunò per 19 anni… Martha Robin, morta nel 1981 e stigmatizzata, non toccò cibo per 51 anni. La francese Marie-Julie Jahenny e una certa Mirijam di Abellin si nutrirono anche loro per anni della sola ostia…»

Loro avevano l’ostia, si disse Yvonne, io ho le vitamine per via intravenosa.

Ma non furono tanto le vitamine, quanto la buffa presenza e le parole di Armand a ricondurla gradualmente sul sentiero della normalità. Armand era il Matusalemme che aveva blaterato qualcosa circa le tecniche indiane di respirazione. Aveva occhi color pervinca, il buon vecchio, sognanti come quelli di un bimbo. Ma gli occhi non potevano ingannare Yvonne: sapeva che la morte è onnipresente e che la sua maschera può sovrapporsi finanche al volto latteo di un neonato.

Le prime notti al Biancaneve furono semplicemente terribili. Il vento ululava imperioso e, ogni volta che un fulmine si abbatteva nei paraggi, lei vedeva stagliarsi contro il rettangolo della finestra lo scheletro armato di falce dell’Apocalisse. Il ritorno alla vita avvenne tra mille difficoltà. Il suo era un ‘io’ sfrattato dal corpo. Yvonne cercava di fare mente locale, ma la tristezza era più forte di ogni invito alla ragione e le obnubilava la mente. Ci voleva giusto un tizio bizzarro come Armand a riscuoterla.

«Santa Vergine!» le disse Armand una sera. «Non puoi e non devi fare quella faccia oppressa, figliola! In fondo che cos’è successo? Niente!»

Niente? Lei si ricordò della bara e, di nuovo, fu come se una lama di ghiaccio le penetrasse le ossa. Il gelo era onnipresente. Inverno hiver. Inverno-inferno… A intervalli regolari, le ponevano dinanzi una pietanza calda, ma nulla sembrava esserle di ausilio e sciogliere i gigli di brina che le infiorivano il cuore. Nessuna parola, nessuna sostanza era in grado di farle riacquistare la temperatura normale. Ogni tanto la calotta del suo cranio lanciava acuti ticchettii d’aggiustamento mentre si restringeva per il freddo…

«Stai male? Devo chiamare l’infermiera?» insisteva Armand.

Yvonne si volse a guardarlo. Il vecchio sembrava Dracula, il non-morto par excellence, e domandava a lei se stava male! Lui era stato salvato per un pelo dall’asfissia, come era solito raccontare. Dunque perché si ostinava ad aggrapparsi alla vita? Che cosa avrebbe potuto fare là fuori, nel mondo? Alla sua età, poi… Senza dubbio si sarebbe nutrito di speranze e ricordi, così come un esploratore smarritosi in Siberia ha come unica prospettiva quella di nutrirsi di mastodonti congelati.

Eppure -come Yvonne ben presto scoprì -Armand aveva un pregio incommensurabile: era di una comicità innata. Che lo volesse o meno, spingeva al sorriso chiunque gli stesse intorno.

«Prova anche tu questo esercizio. È molto semplice. Guarda: l’indice e il mignolo della mano destra vengono piegati contro il palmo… la mano si mette qui, sopra il naso… Poi con il pollice bisogna chiudere la narice destra e inalare attraverso la narice sinistra. Intanto concentri il tuo pensiero su un flusso di aria, di forza vitale o ddi energia. Adesso stendi l’indice e tappi anche la narice sinistra. In questo modo si trattiene il fiato e…»

No, era troppo buffo! Suo malgrado, Yvonne sentì che un sorriso le rischiarava il volto.

«Brava! Così mi piaci!» eruppe la nurse, che stava ad osservarli da qualche metro di distanza.

«Alè! Ecco la sbobba della sera», sbraitò Armand, ostentando una faccia infelice..

«Non sei contento del vitto?» gli chiese Yvonne, sempre sorridendo.

«E come potrei?» rispose lui. «Beh, magari il vitto ancora va bene, ma l’alloggio… Ti dico una cosa: vorrei trovarmi fuori! E invece ci tengono qui finché non ci cascano i vermi di dosso. "Mangia la brodaglia e taci" ci dicono.» Sospirò. «Se continuiamo a rimanere chiusi, diverremo allergici alla luce!»

Il sorriso di Yvonne si allargò. E, per la prima volta dopo quasi una settimana, si costrinse a mangiucchiare qualcosa.

Generalmente, nel corso di quei pranzi l’atmosfera era tutt’altro che rilassata. Durante i primi bocconi non parlava nessuno, e a Yvonne sembrava di essere stata invitata a un banchetto funebre. Il personale infermieristico (costituito da due donne e tre uomini alquanto muscolosi) girava per i tavoli badando che nessuno facesse sciocchezze: era lampante che temevano che qualcuno si infilasse il coltello in gola… Probabilmente una cosa simile era già successa. Per quegli zombie, in effetti, non doveva essere facile convivere con un corpo semiputrefatto. Ma perché erano tenuti in vita? Per una specie di punizione? Perché espiassero i loro peccati?

Dopo mangiato, gli zombie danzavano a un ritmo monotono, misere creature sofferenti. Era palese che avrebbero non solo desiderato dimenticare gli orrori della bara, i giorni e le notti trascorsi nella necropoli (il cosiddetto "luogo di requie"), ma che volevano anche buttare via, una volta per tutte, i cocci della loro antica esistenza. Vivere di nuovo, pienamente, senza tregua: ecco la meta! Perché un giorno la morte arriverà di nuovo e stavolta arriverà sul serio. La morte: una realtà al di là delle lacrime, delle preghiere, delle implorazioni d’amore.

Il personale di sorveglianza stava ben attento che i "pazienti" non si suicidassero. Più tardi li avrebbero rilasciati e… E che cosa? Chi avrebbe accolto gli "scampati"? Quali strategie avrebbero potuto adottare "là fuori"? Chiudersi in casa a invecchiare?

Fissare costantemente uno schermo tivù, sentendo intanto scorrere su di sé la pialla degli anni? Ma non era un suicidio anche quello?

Ogni tanto, una persona nuova – accompagnata dai solerti Piccolo e Bela – arrivava mentre tutti si era radunati nella mensa. Lo "scampato", con vesti fluttuanti di cenere, si guardava intorno allucinantemente, camminando a gambe rigide e larghe come la vittima di una vile profanazione (una profanazione di cadavere!). I clienti dell’hotel gli si avvicinavano e lo circondavano simili a mostruose farfalle ubriache, che lui/lei fissava con due orbite da cui stillava il fluido malsano dell’intossicazione. Ancora il "salvato" non afferrava del tutto… Forse credeva di essere prigioniero del Sogno Estremo. La terra, trepida matrigna, proseguiva a serrarlo nel suo seno.

Chi invece era riuscito a tirarsi fuori con le proprie forze (perché accadeva e accade pure questo), si comportava in modo diametralmente opposto: rideva con denti ammuffiti e roteava le folli pupille in preda a un’inarrestabile logorrea. Nel bel mezzo del discorso sembrava smarrire il filo, come soggetto a catalessi, e poi, sebbene non invitato a farlo, riprendeva la narrazione con più foga di prima. Questi particolari soggetti erano evidentemente affascinati dalla magia della "seconda nascita". Una ri­nascita per loro simbolizzata da un taglio cesareo effettuato dall’interno. Era l’embrione ad operare: con lo scalpello e le forbici di uno stolido attaccamento alla vita.

Quelli che erano stati "salvati", dissotterrati all’ultimo secondo, sottratti alle loro stesse esequie, o risvegliatisi magari sul tavolo dell’autopsia, dove si svolgeva la loro dissezione, erano invece piuttosto restii ad aprire bocca. Sembravano shockati a vita o a… morte, e comunque desiderosi di celare al mondo la propria resurrezione. Come Yvonne, erano stati dichiarati vivi, benché in stato asfittico, e trascinati contro la propria volontà sotto le luci dei riflettori della pubblica attenzione. Più questi tipi venivano sollecitati a parlare, a raccontare, più sprofondavano in uno stato di sopore sempre più disperato, sinché per alcuni di loro si riteneva che fossero morti una volta di più: di una morte spirituale.

C’era un’altra genìa di "scampati": quelli che non gioivano e che neppure si rivoltolavano nella disperazione. Si trattava di anime semplici che accettavano di buon grado il loro destino – quanto era avvenuto e quanto ancora li aspettava – con la stoica arrendevolezza che contraddistingue le menti pigre e sciocche. Uno di questi Stoici dichiarò a Yvonne: «Beh, io tanto ho già 32 anni e posso dunque considerarmi un tipo longevo. Infatti: quanti non sono morti più giovani di me! Se morissi di nuovo non avrei rimorsi. Qualsiasi bambino considera "vecchio" uno della mia età. Loro, i bambini, sono ancora vicini al porto di partenza e la distanza che li separa dal punto d’arrivo è incommensurabile. Mentre noi, ormai…»

Il maldestro gobbetto aiutava spesso a servire a tavola, e bisognava vedere come i piatti gli venivano strappati di mano! I "clienti" – perlopiù ossuti, col cranio seminudo, lungocriniti – sembravano volersi strafogare. Anche Armand mangiava con la voracità di un camionista. E frattanto beveva litri e litri di acqua minerale.

Il giorno in cui Yvonne capì di voler tornare anche lei alla Vita, il vecchio era particolarmente ciarliero. Mentre si sforzava di ascoltarlo, la ragazza si volse a osservare l’altra persona che sedeva con loro: uno arrivato quel mattino. L’uomo non offriva certo un bello spettacolo: gli arti gli erano stati parzialmente dilaniati dai ratti, e anche il busto presentava una serie di ferite profonde. I roditori gli avevano dato tanti e tali di quei morsi da sventrargli quasi le interiora. Il Doc lo aveva ricucito per benino e ora il malcapitato, coperto di bende, sedeva tra di loro. Gli mancava un occhio e quel che restava del volto era quasi totalmente sfigurato. Nell’angolo interno dell’occhio superstite gli cresceva una pianticella; probabilmente un seme assetato aveva voluto impiantarsi lì… Ebbene, questa persona così sfortunata mostrava di avere un appetito invero straordinario. In altre circostanze sarebbe stato divertente rimanere a guardarlo, ma quel giorno… A ogni boccata si udiva il viscido risucchio che proveniva dal suo stomaco; o da quel che ne era rimasto.

«Armand, dimmi: a te che che cosa ha dato questa… esperienza?» Così si rivolse Yvonne al commensale amico, all’unico scopo di distrarre i sensi dalla bieca figura del nuovo arrivato.

«Beh», fece Armand, «per tutta la vita ho sempre desiderato sapere se Dio esiste. Dopo questa esperienza…»

«Dopo questa esperienza sai finalmente che esiste, vero?»

Armand non le rispose. Lui era giunto a tutt’altra conclusione, ma non voleva contrariare la ragazza, alla quale si era affezionato.

In quella, il trentacinquenne stoico – e, come abbiamo visto, sciocco – si intromise per sbottare: «Ma Armand è vecchio! È molto più vecchio di te e di me assieme. Cosa gli chiedi a fare? Le sue esperienze sono per noi cose da alieni.»

«Io vecchio?» protestò Armand. «Ti sei guardato allo specchio? Potresti essere mio figlio e sembri mio nonno! Ah no! Sono in formissima!» E, alzatosi, prese a ballare come un folletto. Molti degli astanti deposero le posate per dedicargli un applauso, mentre il nuovo arrivato stava a fissarlo con la sua spaventosa bocca spalancata. Dopo aver riguadagnato la propria sedia, Armand fece l’occhiolino a Yvonne e le disse: «Per invecchiare bene occorre aumentare la dose di sana follia, quella che ti alleggerisce, che ti fa giocare, che ti fa sognare».

Lei gli sorrise. Intanto pensava: "Strano che voglia lasciare questo posto!" All’Hotel Biancaneve Armand viveva come un principe rinascimentale; si aggirava per il salone in vestaglia di seta e raccontava le favole più assurde. Ci stava benissimo, lui. La sua plaga di una volta (e comune a tanti altri individui), ovvero il doversi piegare alle regole della società, non lo avrebbe mai raggiunto tra quelle mura. Allora perché…?

«Armand», lo interpellò, «come mai non vedi l’ora di uscire da qui? Che hai intenzione di fare nel mondo? A parte gli esercizi di respirazione, s’intende. »

«Mah! Credo che creerò un nuovo schieramento politico», ribatté lui. «Lo chiamerò: "Fuori al sole".»

Yvonne ridacchiò, sentendosi ardere all’interno una fiammella catartica. Rideva per il vetusto e caro compagno di quei giorni convalescenziali, pur se, tristemente, presagiva per lui tempi assai duri. Segretamente, gli augurò di morire in modo indolore e del tutto fantastico: sul letto di una clinica privata, con un’infermiera scandinava che gli mixava un cocktail di veleno e anestetici e che lo sbaciucchiava stando sdraiata accanto a lui prima di infilargli l’ago nella vena.

«Prana si può tradurre con "respiro". Ma in realtà questo termine sanscrito indica l’energia vitale. Pranamaya, la "scienza di prana", è alla base dello Hatha Yoga, ovvero unione di sole e luna, di "maschio" e "femmina", ed è, di conseguenza, equilibrio completo. Unione: lo scopo finale di tutti gli yogi. Un assioma del Pranayama recita: "Il respiro è vita. Chi controlla il respiro, controlla la propria vita." E continua: "Il linguaggio, la vista, l’udito, le sensazioni… sono tutte manifestazioni del Prana. Prana penetra il nostro corpo nel momento della nascita, però non muore col nostro corpo." Il respiro possiede una propria sonorità, una propria musica: entrandoci nei polmoni, l’aria emette il suono SOH. Quando esce: HAM. Il respiro forma dunque la parola SOHAM, cioè: "Io sono Esso"…»

Mentre Armand, consumando una delle sue sigarette al mentolo, doceva in quella maniera pedantesca, Yvonne rifletteva:

"Morire. Una morte autentica , stavolta. Dev’essere stupendo… In fondo, cose ben peggiori della morte attendono l’uomo…" Morire. Come una pianta. Niente più sogni campati in aria, ma soltanto realtà, d’ora in poi. Una realtà vegetale, bien entendu, non organica. "Uomo" è una categoria che acquista un senso tutt’al più nella memoria, oppure nell’immediato vissuto. Occorrerebbe essere pietre! Pietre felici… Raggiunto tale stato, niente potrebbe più scuoterci.

Alla vigilia del suo rilascio, stette a lungo a guardare dalla finestra. In lontananza Kyllburg bruciava in un tramonto color cremisi, sullo sfondo di dolci colline azzurrate. Più vicino, le croci del cimitero e gli angeli marmorei sembravano galleggiare in una sostanza evanescente.

Il mattino seguente (lei aveva già opportunatamente sgombrato la sua camera) un’inserviente filippina le consegnò una lettera. Yvonne spiegò il foglio. Era di Madame Spürli. Diceva:

Mia cara amica, mentre ti prepari a riagganciarti al mondo "normale", voglio impartirti alcuni consigli riguardo i rapporti interpersonali; soprattutto quelli con l’altro sesso. Non ti isolare! Non star lì a pensare, ancora e ancora, alle esalazioni soffocanti della terra umida, all’appiccicaticcio degli indumenti funebri, al rigido amplesso dell’angusta dimora! Ormai hai abbandonato le tenebre della Notte totale! Adesso dovrai infrangere questo silenzio che hai dentro, questo silenzio simile a un mare dilagante. I contatti umani sono di primaria importanza! Senza di essi, senza le relazioni sociali, non esiste vita. Lasciati alle spalle i frangenti funebri, ordunque! Anche se la tua bellezza è un po’ segnata, non è giusto che tu la sottragga ai sensi degli uomini. Impara di nuovo a truccarti! Anche quando i tuoi accompagnatori affermeranno che le donne col make-up pesante non sono di loro gradimento, ricordati che intendono esattamente il contrario! Il make-up fa impazzire gli uomini. Anzi: più pesante è, meglio è. Nel tuo caso, poi, è necessario applicarlo a dosi generose. Bada a coprire essenzialmente la zona sotto e attorno agli occhi… Quando esci in compagnia di un uomo, non fare mai la malinconica. Raccontagli storie divertenti e non accennare mai – mai! – alla tua tragica avventura. Molti non ti crederebbero e, se sì, ti odierebbero per averne solo fatto cenno…

Yvonne appallottolò il papiro. Madame aveva calcato troppo la mano con i suoi bonari "consigli". D’accordo, lei aveva delle ombre sotto gli occhi, ma diamine! L’alito vitale non l’aveva certo abbandonata! E poi… farsi bella per chi? Per gli uomini? Come se lo meritassero! "La vita è show" le aveva ricordato il Doc. Tutto è spettacolo… Il saperlo le infondeva un senso di conforto, anche se non certamente il senso di sicurezza di cui aveva più bisogno.

Il Doc le aveva spiegato che, dietro richiesta, potevano essere forniti documenti -totalmente legali, s’intende – a chi volesse tornare tra i vivi con una nuova identità.

«Se tu vuoi un nominativo nuovo…»

Yvonne stette a pensarci su per qualche minuto. Il gioco del nasconderello poteva risultare eccitante. Ridursi a uno pseudonimo tra pseudonimi…

«Il servizio include il lifting per cambiare faccia. Un intervento ad hoc a occhio-naso­bocca-mento-collo: i cinque punti-chiave, per garantire una nuova espressione del volto.» E, detto questo, il Doc le aveva consegnato un opuscoletto in cui si parlava, tra le altre cose, di modifiche al taglio dell’occhio "allo scopo di cancellare l’espressione intristita": un taglio "orientaleggiante" che avrebbe allungato l’occhio verso l’alto. Più tecnicamente, l’opuscoletto si dilungava su temi come "lo spostamento del legamento oculare, tirandolo di 4 mm. verso l’alto e ancorandolo all’osso orbitale. Altri interventi possibili: sopracciglia (peeling) e arcata sopraccigliare. L’osso orbitale si può limare di 2-3 mm… Rivoltamento delle borse degli occhi verso il basso, in modo da riempire la parte inferiore dell’orbita. Naso: si stringe la punta del naso, riducendone le cartilagini. Labbro. Aumento voluto della distanza tra il labbro superiore e la columella. Altro: riduzione del grasso del collo; stiramento dei muscoli facciali…"

Yvonne gettò via l’opuscoletto ("La mia faccia mi piace così!" si disse) insieme alla lettera di Madame. Poi, con una sorta di nostalgia anticipata, sollevò lo sguardo verso la rampa di scale, in quel momento vuota. Ogni mattina la vedova Spürli scendeva da lassù in vestaglia, gli occhi cisposi e i capelli bianco neon, piena di elettricità e pronta a galvanizzare anche i suoi ospiti, mostrando loro la via per vivere da persone felici. Comandava le colf di qua e di là e lei stessa non disdegnava di armarsi di straccio, ricordando da vicino la classica zia maniaca delle pulizie.

Yvonne chiuse gli occhi. No, non apparteneva più a quella casa. Non voleva essere più una cliente dell’Hotel Biancaneve, lei. Tanto più che a quell’ora il suo nome doveva già essere stato cancellato dal libro mastro.

Afferrò lo zainetto contenente i suoi scarsi averi e attraversò il salone. Poco dopo si affacciava sulla strada. Era una giornata di cielo sereno con temperatura tiepida. Tutt’intorno regnava il sound della calma, ma, a tendere bene l’udito, si potevano udire, nemmeno tanto lontano, autobus catarrosi, l’abbaiare di cani, le voci di venditori ambulanti e di perdigiorno, un’auto col motore imballato… un’intera orchestra di professionisti dell’inquinamento acustico. Benvenuti alla Vita!

Issandosi lo zainetto sulla spalla, domandò al nanetto: «Dov’è la città?»

«Kyllburg? A tre miglia.»

«In quale direzione?»

«Nella direzione in cui volano i corvi», le rispose il laido gnomo, che poi rientrò in casa con i suoi soliti movimenti tutti a scatti e sbattendo la porta.

Yvonne inspirò ingordamente l’aria mattutina. Il sole le accarezzava il volto. Subito si sentì un’altra: quasi di di statura gigantesca e di salute robustissima. Era merito del sole o degli energici ricostituenti che le erano stati propinati nelle ultime due settimane?

Due settimane al Biancaneve e già aveva perso lo strato di muffa! Svanita era anche l’intollerabile oppressione ai polmoni, anche se, di tanto in tanto, nei sogni le avrebbe fatto ancora visita quello che Poe definiva "il Verme Conquistatore".

"La metamorfosi è un fenomeno meraviglioso" si disse guardando giù, in direzione del cimitero, quasi desiderando dare un’occhiatina più da vicino a quell’ossario, a quella Città dei Morti.

Alt! Dove andate? Pensavate che fosse finita? Questa era la "fine per gli allocchi", detta anche "effetto Rosebud". Conoscete Citizen Kane, di Orson Welles? Ebbene, nel momento in cui sullo schermo appare la scritta "Rosebud brucis", molti si alzano e lasciano la sala, credendo che la rappresentazione sia terminata. No, amici: la storia prosegue!

Ricordate Paul, lo studente-becchino? Dopo aver baciato sulla bocca la "defunta", per lui la vita non fu più la stessa. Non riusciva a studiare, e sul lavoro si trascinava tra i sepolcri con una indefinibile voglia inappagata. I colleghi sentivano uscire dalla sua bocca un sussurro incoerente in una lingua che non comprendevano, perciò avevano smesso di rivolgergli la parola. Paul era diventato strano, balzano; uno svitato. Il fatto è che ripensava di continuo alla ragazza, e ripensava al destino cui la ragazza poteva essere andata incontro. La rivedeva tornare dall’Aldilà e, mille e mille volte, rivedeva la scena con i due bizzarri personaggi che se la portavano via. Proprio quest’ultima parte della storia non gli dava tregua. A quanto ne sapeva, poteva essersi trattato del ratto di un cadavere. O, meglio, di un ex cadavere.

Ogni tanto alzava lo sguardo verso la casa in cima al poggio, senza però decidersi di salire fin lassù. La casa era stata costruita a 200 metri sul livello del mare, ma era più alta di tutte le cose umane. Possibile che fosse un albergo per walking deads? "Quando mai si è sentita una cosa del genere?" pensava. E cominciava persino a dubitare di aver vissuto l’esperienza del bacio e tutto il resto. Finché, armatosi di coraggio, non andò a informarsi in biblioteca.

Spulciando tomi antichi e altri recenti, spilluzzicando tra casi di necrofilia e memorie post-mortem, trovò qualche indicazione su istituzioni simili all’Hotel Biancaneve. Dunque era vero: c’erano e ci sono casi di persone consegnate vive all’avello, al sarcofago…

"Chi è stato iscritto nel libro dei morti, può esser certo che il suo nome è stato depennato dal registro dei viventi. Il soprabito, l’orologio e i restanti effetti personali del de cuius sono diventati proprietà di altre persone, il suo letto non esiste più, i suoi possedimenti sono passati a mani estranee. Giacché lui si è risvegliato dal sonno dei giusti, il suo posto non è più tra i morti e non è più tra i vivi. E dove può andare codesto individuo? In quale posto potrà attendere che la sua situazione giunga a chiarimento?"

Questo è un brano-chiave dell’immaginifica novella Die Wunderliche Herberge (L’ostello dei miracoli), di Werner Bergengruen. Protagonista del racconto è un certo Dottor Bard, di Reval in Svizzera. Bard, autore dello scritto L’asfissia – tormento dell’umanità, spende gran parte del suo denaro per la creazione di un "ostello per morti apparenti"…

Paul si dedicò a questa lettura e ad altre analoghe con interesse pressoché maniacale. Scoprì che anche ai nostri giorni le inumazioni premature sono un evento frequente; talmente frequente da non fare più notizia (Per meglio dire, i media cercano di non menzionare l’evento: raro e inquietante esempio di autocensura.) Una legge prescrive che, prima di inchiodare il coperchio sulla cassa, la salma deve essere "esposta" per almeno 19 ore. In alcuni Paesi, questo intervallo precauzionale è addirittura più lungo… Nonostante il silenzio autoimposto, persino nelle cronache odierne – a ben cercare – ci si imbatte ogni tanto in raccapriccianti episodi di "zombie". Molti di quei malcapitati affermeranno poi di essere stati ben coscienti – sebbene clinicamente morti – della situazione in cui si trovavano.

Clinicamente morti e tuttavia capaci di pensare? Crepati e… col cervello funzionante? Certo. Vedi le recenti rivelazioni di ricercatori medici di Los Angeles. Non accade soltanto ai sepolti vivi: a quanto pare, pure le teste dei ghigliottinati continuano a "funzionare" per qualche minuto prima che su di esse cali il manto del Nulla…

Il giovane pregò, si augurò, che la bella Yvonne non ricordasse alcunché della sua vita da "defunta".

Lei gettò il capo all’indietro nella pioggerellina di caldi strali obliqui. Sentì un clacson e, stupita, si volse. La ruota dei suoi capelli girò nella luce del sole. Un 126 era parcheggiato sull’altro lato della strada e il giovane al posto di guida le faceva dei cenni. Riconosciutolo, gli si avvicinò e gli puntò addosso uno sguardo che esprimeva una muta domanda. «Tu?»

Paul le sorrideva, tenendole aperto lo sportello. E, dalla sua espressione, Yvonne capì che era un suo alleato.

La vita è una casa e ogni età è una stanza differente. Le porte si aprono e si chiudono, nel corridoio passano e ripassano ombre, ma soltanto i veri amici rimangono.

All’interno della modesta scatola di latta, l’uomo e la ragazza si guardarono dritto nelle iridi e si piacquero molto, come già si erano piaciuti la prima volta, laggiù, sul limitare dell’Interregnum. Paul prese a filosofeggiare sul tempo della nostra vita che è così ineffabile, così sfuggevole, ma di cui – dichiarò – non occorre aver paura; e le parlò degli alberi, e delle stagioni che trascorrono ma che dopo fanno ritorno. «Io non porto mai l’orologio: per fare una beffa al tempo», le confessò.

Intanto, la piccola quattroruote si metteva in moto e cominciava a correre come di propria sponte, portando i due incontro al loro domani. Per un istante, nella cornice dello specchietto retrovisore si stagliò la bieca figura del cavaliere con la falce. Il messo dell’oltretomba si mise a inseguirli; li insegue. Ma vanamente: non riuscirà mai a raggiungere questi due cuori innamorati a morte.

Nicola Randone, alias Art, è Scrittore, musicista compositore, leader della band Randone con all'attivo 7 cd ed 1 dvd LIVE sotto edizione discografica Electromantic Music. Qui pone frammenti di vita, espressioni dell'anima, lamenti del cuore ed improbabili farneticazioni intellettuali.

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